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Film della settimana: 17 e 18 ottobre

Diaz - Non lavare questo sangue 
di
 Daniele Vicari




Genova, luglio 2001. Durante il G8, trecento poliziotti e settanta agenti di un reparto speciale fanno irruzione nella scuola Diaz, dove hanno trovato riparo novantatre giovani provenienti da diverse nazioni e impegnati in una protesta pacifica contro il summit. Il violento attacco delle forze dell’ordine sui manifestanti disarmati e semiaddormentati segnerà una delle pagine più tragiche e tristi della recente Storia del nostro Paese. Su questo drammatico sfondo si dipanano le vicende di vari protagonisti: un giornalista di Bologna, un’anarchica tedesca che ha partecipato agli scontri, un organizzatore del Genoa Social Forum, una giovane avvocato del Genoa Legal Foru, un vecchio militante della CGIL…


Un tempo si diceva Armando Diaz e si pensava al generale della Vittoria nella Grande Guerra, ma dal 21 luglio 2001 quel nome rievoca fatti che si vorrebbe non fossero mai avvenuti. A dare eco a quell’intervento di «macelleria messicana» avvenuto in conclusione del G8 di Genova sono stati dunque anche i giornali stranieri; e ricordiamo l’articolo di Nick Davies sul «The Guardian» del luglio 2008, dove si constatava amaramente come, a processo ultimato, «giustizia non era stata fatta». In effetti, persino i colpevoli riconosciuti tali sono rimasti impuniti e nessuno si è preoccupato di indagare sulle responsabilità ai livelli alti della politica. Non lo fa neppure il film di Daniele Vicari che, in base alle numerose testimonianze visive e verbali esistenti, si limita a ripercorrere quelle tragiche ore intrecciando le storie di un gruppetto di pacifici no-global, in contrasto agli opposti vandalismi dei Black Bloc, scusante ufficiale dell’esplodere di tanta violenza da parte delle forze dell’ordine. Chiaro che, a fronte dei vergognosi massacri perpetrati alla Diaz e proseguiti a freddo i giorni seguenti nella caserma di Bolzaneto, per il regista (come per tutti noi), la scusa non regge.

A Daniele Vicari l’etichetta di cinema civile non piace, eppure le ricadute civili di Diaz ci sono. Anche se non contiene speciali rivelazioni, il suo film dona al cinema una grande potenza espressiva. Con una scelta di stile che non si concede licenze, Vicari non nasconde e anzi mette ben in evidenza che si sta parlando di cose vere, ma da un lato spinge molto sull’azione, la velocità, il ritmo narrativo, e dall’altro usa la convenzione che umanizza il racconto nel seguire un gruppo di singole vicende.

Tre i meriti fondamentali: ricordare «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la II Guerra Mondiale», consumata tra la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001, su cui è caduto un colpevole oblio; dopo quello sulle stragi di Stato, inaugurare - speriamo - un filone sull’orrore di Stato, capace di fare giustizia laddove potrebbe non esserci in aula; sotto il profilo cinematografico tout court, firmare un film decisamente popolare, puntando sulle emozioni – il pugno allo stomaco dell’assalto della polizia alla Diaz – e trovando insieme al genere horror anche il Salò di Pasolini con le torture a Bolzaneto. Il premio del pubblico a Berlino attesta questa tensione popolare, e fa ben sperare per un analogo esito in Italia: a differenza di Romanzo di una strage di Giordana, dedicato ai fatti di Piazza Fontana, Vicari non racconta, non costruisce teorie, semplicemente, mostra i fatti meno - anzi, per niente - filmati di uno degli eventi, il G8, più filmati al mondo. E riguadagna al cinema di finzione una capacità documentale e documentaria che il documentario stesso non può avere.

Diaz affronta un’esperienza molto cruda, una sorta di pugno nello stomaco che non lascia vie di fuga agli spettatori non inclini ai film semi-documentaristici a trazione integrale di denuncia. Si può dire, peraltro, che il regista Daniele Vicari si dimostra abile nel gestire il ritmo della propria (re),visione apocalittica e nel ricostruire relativi sfondi, scontri e sadismi sul filo di un’emotiva e frenetica verosimiglianza. Diaz è insomma un saggio di cinema, come si diceva una volta, poetico-politico molto più coerente e moderno di Romanzo di una strage, più vicino al linguaggio della tv.

A Vicari interessa fare quello che sa fare e cioè produrre choc a tutto schermo, accelerare o rallentare lo sguardo della cinepresa, spaccare i protagonisti tra buoni, semibuoni, cattivi e cattivissimi e farsi paladino dei giovanilistici furori che, fatti salvi pochi «se» e ancora meno «ma», avrebbero in fondo sempre ragione. Da una parte si libera dalle fumisterie complottiste, dall’altra rinuncia ad approfondire il perché degli opposti comportamenti scatenati dal panico come dalla rabbia. Su una cosa, però, può stare tranquillo: se i fatti di Genova gettarono un’ombra sulla democrazia, hanno provveduto a diradarla non solo la normale dialettica giudiziaria e la garanzia delle personalità super partes come il presidente Napolitano, ma anche il fatto che si sia potuto fare un film, come il suo, costosissimo, pubblicizzatissimo e lodato nella stessa misura in cui è stato attaccato. Meriti di un cinema non sempre bellissimo, ma di certo efficace.

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