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Il Cineocchio: 4-5 aprile 2012


Una separazione di Asghar Farhadi


Sinossi
Nader e Simin sono sposati da quattordici anni, vivono a Teheran con la figlia undicenne Termeh e sono sull’orlo della separazione. Simin vuole lasciare il paese con il marito e la figlia, ma Nader non è delle stessa opinione, dal momento che il padre è malato di Alzheimer. Dopo aver visto rifiutata la domanda di divorzio, Simin lascia il marito e la figlia e torna a vivere con la madre; nel frattempo Nader assume Razieh, una giovane donna, incinta, profondamente religiosa e proveniente da un quartiere povero, come badante del padre. Al primo giorno di lavoro Razieh perde di vista il padre di Nader e scatena una serie di eventi in cui la famiglia dovrà fare i conti con la rigida giustizia del regime iraniano.

Uno dei film più belli dell’anno, Orso d’oro al Festival di Berlino del 2011 e poche settimane fa Oscar come Miglior film straniero, è il dramma familiare
Una separazione di Asghar Farhadi, nuovo talento del cinema iraniano già autore dell’apprezzato About Elly (programmato lo scorso anno dal Nucleo).
Come il precedente film, anche Una separazione racconta della borghesia di Teheran – la colta e benestante borghesia occidentalizzata della città – e dei suoi dilemmi privati trasformati in tragedie civili. E, ancora, come in About Elly, anche in questo caso la disamina di un evento centrale – ovvero la causa di molestie che a un certo punto coinvolte suo malgrado Nader – costruisce l’intero film, con le diverse versioni di ogni personaggio che si scontrano le une con le altre, sbattendo a loro volta contro le regole scritte e non scritte di una società lacerata dalla sue stesse contraddizioni.

Farhadi, che non è un dissidente come Panahi (da tempo in carcere per reati d’opinione) ma non è un artista allineato, non ci va leggero con il regime: il ritratto che fa della giustizia iraniana, la pervasività con cui racconta l’imposizione di regole morali opprimenti, sono critiche sottili e spietate. Ma la struttura del suo film nasconde le accuse e mostra solo le conseguenze sulla vita quotidiana degli individui: uomini e donne che agiscono, sbagliano, attaccano, si difendono, hanno dubbi, fragili certezze, e vedono dispersa ogni pretesa o diritto in un mondo che ha la colpa di non evolvere con la stessa rapidità delle persone che vorrebbe controllare. La religione c’è, la libertà pure, la legge che sa ascoltare anche, ma tutto sembra inutile, ogni cosa disperde le proprie ragioni in un mare di altre ragioni. E così l’accusa più diretta al regime iraniano è proprio quella che mette all’indice la sua debolezza, peggio ancora la sua assenza.

In Una separazione, dunque, da una parte ci sono le certezze e le verità monolitiche della legge e della religione, dall’altra la nebulosa instabile e viscosa degli individui, che coi loro dubbi e le loro fragilità tentano di sbrogliarsi nell’intrico delle relazioni umane, aggrappandosi ostinatamente a principi che si frantumano e si disperdono nel pulviscolo del quotidiano. Il valore politico e scioccante del film sta proprio nella capacità di smontare le presunte certezze degli individui e la loro pretesa di poter capire, giudicare, decidere. L’intervento della legge, con le sue delimitazioni taglienti e inappellabili, funziona da catalizzatore che esaspera le altre separazioni latenti, oltre a quella esplicita tra marito e moglie: quella tra i sessi, tra generazioni, tra classi sociali. E ad emergere non sono solo i dogmi e le paure che in una società autoritaria ingabbiano gli individui, ma i recinti mentali di cui essi stessi si circondano e che si fortificano grazie al rancore e all’incomprensione, oltre che alle derive egoistiche dell’amore. La giovanissima Termeh (interpretata dalla figlia del regista), nonostante le lacerazioni e le pesanti responsabilità che le sono imposte, si sforza di oltrepassare quelle barriere e ricucire le divisioni, risultando l’unica figura in cui si possa riporre qualche speranza.

Per far lievitare naturalmente le conflittualità e le contraddizioni latenti, Farhadi dispone un’architettura sottile e impeccabile, studiatissima nella sua ingannevole semplicità: una messinscena in apparenza trasparente, quasi dimessa, alla quale è sottesa una scrittura diabolicamente accorta nel disseminare dettagli e indizi che solo in un secondo tempo mostrano il loro peso nell’economia narrativa.
Una ragnatela finissima e inavvertita si stringe inesorabile attorno ai personaggi, rivelando segreti e omissioni, lasciandoci osservare come le verità e le menzogne di ciascuno vacillino di fronte a quelle degli altri. Il passo indagatore della narrazione disseziona spietatamente le ragioni e gli interessi che si celano dietro a ogni scelta, in un crescendo che non risparmia nessuno, ma nemmeno si precipita verso facili conclusioni o condanne: il punto non è identificare un colpevole, ma aprire il nostro sguardo su una semplice e dolorosa verità, ossia che tutti hanno le loro ragioni.

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