Laure, una ragazzina di
circa dieci anni dall’aspetto mascolino, si è recentemente trasferita in un
nuovo quartiere con i suoi genitori e la sorellina, Jeanne. E’ estate e
nonostante gli altri ragazzi si divertano a giocare all’aperto, Laure ha
difficoltà a integrarsi con loro. Ma un giorno incontra Lisa, una ragazzina che
ha esattamente la sua stessa età. Laure le fa credere di essere un maschio
facendosi chiamare Mikael. Questa trasformazione le fa conquistare non solo
l’amicizia di Lisa, ma anche degli altri ragazzi. Col passare del tempo, il
rapporto con Lisa diventa sempre più stretto, rivelando anche qualche
ambiguità.
E con scene
divertenti e naturali (la sequenza della preparazione di Laure/Michael per il
bagno al lago), la tenerezza di una situazione famigliare verosimile e uno
sguardo sempre ad altezza di bambino, questa donna, questa regista giovane e
dal futuro assicurato, riesce a raccontare in 80 essenziali minuti un
personaggio e il suo mondo. E sarà un caso, inoltre, o solo un’impressione
della critica contemporanea, ma il cinema di oggi registra una crescita esponenziale
di talenti femminili. È una sensazione, non un dato statistico. E un film
notevole come Tomboy, 250.000 spettatori in Francia, premio
Panorama al Festival di Berlino del 2011, primo premio anche al Festival di
tematiche omosessuali di Torino, fa pensare che dopo un secolo di strapotere
maschile la settima arte abbia individuato un vasto terreno inesplorato.
Dimostrazione
esemplare che “piccolo film” non vuol dire sempre “film piccolo”, Tomboy di Céline Sciamma è uno dei film
più sorprendenti della scorsa stagione cinematografica, l’ennesima – piacevole
– dimostrazione di quanto il cinema francese sappia essere preciso e discreto
nel tratteggiare sentimenti fragili e indecifrabili come quelli dell’infanzia.
Si rimane infatti ammirati e stupiti per la semplicità con cui a volte il
cinema d’Oltralpe affronta argomenti e temi che il nostro cinema giovane ignora
o tratta, semmai lo fa, con mano pesante e pretese di autorialità. Non
ricordiamo in anni recenti una rappresentazione dell’infanzia autentica come
quella che ci offre Tomboy. Se a
volte la verbosità del cinema francese adulto ci allontana, dobbiamo
riconoscergli, da sempre, una familiarità e
una consuetudine maggiore con l'universo bambino, con la cellula ricca e
complessa che dà origine all'uomo o alla donna di domani.
Tomboy
(che in inglese significa “maschiaccio”) è realizzato con un minimo di mezzi:
una telecamera Canon 5D, troupe ridotta all’osso, venti giorni di lavorazione,
cinquanta scene in due-tre ambienti. Eppure, per quanto piccolo, è una parabola
intelligente e affettuosa sui labili confini dell’identità sessuale, un film
minimalista intessuto di eventi quotidiani affrontati con una mirabile
pudicizia di sguardi e sensazioni.
Soprattutto,
però, nella sua apparente modestia, Tomboy
è un film che ha coraggio da vendere: i suoi temi sono tra i più complicati e
rischiosi, tra l’esplorazione della sessualità e la ricerca dell’identità, il libero
arbitrio e la solitudine del diverso. Argomenti pesanti resi però lievi dalla
regia precisa e rigorosa della trentatreenne Sciamma, al suo secondo film dopo Naissance des Pieuvres, anch’esso una
delicata esplorazione dell’incerta sessualità adolescenziale.
La
macchina da presa, infatti, accarezza con pari discrezione e intensità il corpo
androgino e i pensieri segreti di Laure/Michael. Concentrando in dettagli quasi
impercettibili tempeste di emozioni e conflitti invisibili ma violentissimi.
Con una disinvoltura, una leggerezza, un’esattezza sentimentale che attraverso
il prisma dell’infanzia disegnano con precisione rara il campo di battaglia
dell’identità, anche adulta. Segno di un talento fuori dal comune, a cui forse
non è estranea la storia personale della regista, nipote di “italiani d’Egitto”,
parole sue, cioè ebrei d’Alessandria, costretti a riparare a Parigi «dove
diventarono francesi e cattolici». Una minoranza nella minoranza, insomma. E in
fatto di sensibilità minoritaria, le donne spesso hanno una marcia in più.
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