Sinossi
Cheyenne, ricca e annoiata rockstar ritiratasi a Dublino, torna dopo anni nella sua New York per il funerale del padre. Leggendo i diari dell’uomo, decide di continuare la ricerca di un criminale nazista avviata dal genitore nei suoi ultimi anni di vita, provando così a riallacciare i rapporti con il suo passato. E tra la metropoli e il deserto americano, il mito del rock e il fantasma dell’Olocausto, ritroverà l’identità perduta.
Cheyenne, ricca e annoiata rockstar ritiratasi a Dublino, torna dopo anni nella sua New York per il funerale del padre. Leggendo i diari dell’uomo, decide di continuare la ricerca di un criminale nazista avviata dal genitore nei suoi ultimi anni di vita, provando così a riallacciare i rapporti con il suo passato. E tra la metropoli e il deserto americano, il mito del rock e il fantasma dell’Olocausto, ritroverà l’identità perduta.
Il cinema di Paolo Sorrentino si confronta da sempre con la solitudine dell’individuo di fronte all’impenetrabile palcoscenico della realtà. Come un soggetto impazzito, va alla ricerca dell’immagine artefatta, del movimento perfetto, dell’espressione consapevole di uno sguardo che basta a se stesso affidandosi a un eccesso visivo che vanifica quasi del tutto la parola. Ogni film di Sorrentino è mosso da un bisogno ineluttabile, forse capriccioso, di colmare un vuoto, di coprire una distanza data per irrecuperabile che separa i personaggi dal mondo dal quale si sono esiliati.
L’ex rock star
Cheyenne protagonista di This Must Be the
Place, come già i personaggi di Le
conseguenze dell’amore e L’amico di
infanzia, è il suo ennesimo eroe impassibile che assiste allo spettacolo
del mondo senza decifrarne il movimento. Come la scenografia del numero live di
David Byrne, la realtà per Sorrentino segue percorsi imprevisti e indipendenti dai
suoi protagonisti, cantanti, eroi, freak che restano soli al centro della scena
come punti di riferimento squilibrati in un universo privo di coordinate.
Quello di Sorrentino è
un rituale, la sopravvivenza di un individuo e di una cultura alla modernità. I
suoi film, e This Must Be the Place più
di tutti gli altri, sono racconti dell’oltre vita, storie di individui che ridefiniscono
la loro immagine, che si mettono in moto soprattutto emotivamente, talvolta
anche fisicamente, per uscirne cambiati. Allo stesso modo l’autore si incarna
nell’eroe, resta solo sulla scena con il proprio stile inconfondibile, al
perenne inseguimento di una realtà avvicinabile solo con l’artificio e la
costruzione. Nel caso specifico di quella americana, inoltre, una realtà
intrisa di immaginario, di mitologia, di linee orizzontali già viste, già
filmate, già digerite, da ricalcare e riportare sulla propria pagina bianca.
In This Must Be the Place Sorrentino ha fin
troppa materia da omaggiare, dal road movie al cinema dei fratelli Coen,
dall’alienazione suburbana all’estetica indie
(evidente nelle scelte musicali, con la battuta sugli Arcade Fire che rifanno i
Talking Heads), tanto cinema da macinare con il suo stesso cinema. Che ricerchi
l’eccesso da scrollarsi di dosso è reso in fondo evidente dal trucco di Sean
Penn, bravissimo a calarsi nei panni ideali del cantante sul viale del
tramonto, visivamente ispirato a Robert Smith dei Cure.
Quello che però funziona
sul corpo di Sean Penn, causando uno shock mnemonico nel ritrovare l’icona
della star (laddove al
contrario nel finale delle Conseguenze
dell’amore il volto di Servillo scompariva nel cemento), non succede per il
cinema di Sorrentino, o meglio per il suo apparato visivo: fondato su
un’estetica pop e iperrealista, il suo stile, oltre il confronto anche ironico
con i propri modelli e sogni americani, se prevede anch’esso una spogliazione,
rischia pericolosamente il baratro del nulla.
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