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Il cineocchio: 25-26 aprile

This Must Be the Place di Paolo Sorrentino





Sinossi
Cheyenne, ricca e annoiata rockstar ritiratasi a Dublino, torna dopo anni nella sua New York per il funerale del padre. Leggendo i diari dell’uomo, decide di continuare la ricerca di un criminale nazista avviata dal genitore nei suoi ultimi anni di vita, provando così a riallacciare i rapporti con il suo passato. E tra la metropoli e il deserto americano, il mito del rock e il fantasma dell’Olocausto, ritroverà l’identità perduta.


Il cinema di Paolo Sorrentino si confronta da sempre con la solitudine dell’individuo di fronte all’impenetrabile palcoscenico della realtà. Come un soggetto impazzito, va alla ricerca dell’immagine artefatta, del movimento perfetto, dell’espressione consapevole di uno sguardo che basta a se stesso affidandosi a un eccesso visivo che vanifica quasi del tutto la parola. Ogni film di Sorrentino è mosso da un bisogno ineluttabile, forse capriccioso, di colmare un vuoto, di coprire una distanza data per irrecuperabile che separa i personaggi dal mondo dal quale si sono esiliati.


L’ex rock star Cheyenne protagonista di This Must Be the Place, come già i personaggi di Le conseguenze dell’amore e L’amico di infanzia, è il suo ennesimo eroe impassibile che assiste allo spettacolo del mondo senza decifrarne il movimento. Come la scenografia del numero live di David Byrne, la realtà per Sorrentino segue percorsi imprevisti e indipendenti dai suoi protagonisti, cantanti, eroi, freak che restano soli al centro della scena come punti di riferimento squilibrati in un universo privo di coordinate.

Quello di Sorrentino è un rituale, la sopravvivenza di un individuo e di una cultura alla modernità. I suoi film, e This Must Be the Place più di tutti gli altri, sono racconti dell’oltre vita, storie di individui che ridefiniscono la loro immagine, che si mettono in moto soprattutto emotivamente, talvolta anche fisicamente, per uscirne cambiati. Allo stesso modo l’autore si incarna nell’eroe, resta solo sulla scena con il proprio stile inconfondibile, al perenne inseguimento di una realtà avvicinabile solo con l’artificio e la costruzione. Nel caso specifico di quella americana, inoltre, una realtà intrisa di immaginario, di mitologia, di linee orizzontali già viste, già filmate, già digerite, da ricalcare e riportare sulla propria pagina bianca.

In This Must Be the Place Sorrentino ha fin troppa materia da omaggiare, dal road movie al cinema dei fratelli Coen, dall’alienazione suburbana all’estetica indie (evidente nelle scelte musicali, con la battuta sugli Arcade Fire che rifanno i Talking Heads), tanto cinema da macinare con il suo stesso cinema. Che ricerchi l’eccesso da scrollarsi di dosso è reso in fondo evidente dal trucco di Sean Penn, bravissimo a calarsi nei panni ideali del cantante sul viale del tramonto, visivamente ispirato a Robert Smith dei Cure.

Quello che però funziona sul corpo di Sean Penn, causando uno shock mnemonico nel ritrovare l’icona
della star (laddove al contrario nel finale delle Conseguenze dell’amore il volto di Servillo scompariva nel cemento), non succede per il cinema di Sorrentino, o meglio per il suo apparato visivo: fondato su un’estetica pop e iperrealista, il suo stile, oltre il confronto anche ironico con i propri modelli e sogni americani, se prevede anch’esso una spogliazione, rischia pericolosamente il baratro del nulla.

Oltre il cerone Sean Penn ha il potere di far desiderare il suo volto riconosciuto e finalmente riconoscibile, mentre è più difficile capire cosa celi al di là di se stessa la ricercata artificiosità dello sguardo di Sorrentino. Forse un ritorno a casa, forse ciò che Cheyenne realizza nel finale di This Must Be the Place: ma se lo scopo del viaggio è scoprire che la scena è il posto giusto dove stare, e che in fondo l’unica scena che conti è quella domestica, allora il viaggio in sé diventa un movimento nel vuoto, diventa una riflessione arguta, ironica, pienamente alla fratelli Coen, sull’invenzione della valigia trolley. Ruote che non si muovono da sole, per l’appunto, sancendo che si può scappare dove si vuole, ma il posto in cui stare sarà sempre un ripiego.

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