Primi del ’900, tra Zurigo e Vienna si consuma il rapporto professionale tra i padri della psicanalisi: lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung e il suo maestro Sigmund Freud. Attraverso il rapporto di entrambi con Sabina Spielrein, paziente e amante di Jung e collaboratrice di Freud, i due dottori approfondiranno lo studio della mente umana, tra l’ossessione per la carne, la tentazione del divino e l’incombere delle tragedie del XX secolo.
Nonostante i pregiudizi
del caso, dovuti all’origine romanzesca e teatrale del film e ai pericoli del
biopic d’ambientazione storica, al dramma da camera A Dangerous Method bastano pochi minuti – giusto il tempo di far
tollerare l’ambientazione mitteleuropea – per far capire che, sì, è un film in
costume di David Cronenberg, il principale regista dell’orrore dagli anni ’80
in poi (dunque, in teoria, non del tutto a suo agio con merletti e barbe finte),
ma che al tempo stesso è un’indagine dei lati oscuri della mente umana, e
dunque qualcosa di molto simile a un film dell’orrore.
A Dangerous Method, oltre la patina da romanzo ottocentesco, oltre
la recitazione impostata dei comunque ottimi interpreti, oltre le scenografie
eleganti e costose, è un film brulicante, carico di energia trattenuta, un
romanzo realista in bilico sull’abisso che apre alle oscurità delle mente. Per
Cronenberg è un viaggio a ritroso nei temi del suo cinema (il sesso, la furia
del desiderio, il rinnovamento della mente attraverso la violazione del corpo),
intrapreso per risalire al peccato originale di chi per primo ha indagato
l’inconscio e ne ha sperimentato gli abissi sconosciuti: gli psicanalisti
colleghi e rivali Freud e Jung e la la loro collaboratrice (e amante di Jung) Sabina Spielrein.
Da un punto di vista
formale, trattenuto e rarefatto com’è, con la morbidezza di movimenti di
macchina che avvolge i personaggi, è una resa dei conti con l’eredità
letteraria del cinema, il legame con l’opera e la derivazione dai romanzi
d’appendice di fine ’800, acquisita proprio negli anni in cui Freud dava avvio
alla psicanalisi.
Oltre la cortina di
compostezza covano la fragilità della psiche e della rappresentazione:
quell’impulso mortifero che non porta più alla violazione della carne (come
succedeva nei capolavori di Cronenberg: Videodrome,
La mosca, Il pasto nudo, eXistenZ),
ma conduce alle soglie di un vuoto rappresentato sia in termini individuali,
come tentazione alla perversione, sia in termini storici, con gli studi dei tre
psicanalisti e i tragici eventi del primo ’900 che impongono una nuova visione
dell’umanità. Nell’unione tra la distruzione individuale e la distruzione collettiva,
il XX secolo, e con esso il cinema, poggia le basi della sua grandezza, della
sua modernità, e di conseguenza del suo spettacolare fallimento. Entrambi, Jung
e Freud, sono agenti della distruzione: anche loro, soprattutto loro, “dei
della carneficina”. E se la psicanalisi rappresenta il tentativo di dare forma
scritta, ragionata all’operato dell’inconscio, sono il romanzo e il cinema, che
su di essa hanno fondato i loro presupposti morali, il frutto impuro e
bellissimo di quel tentativo. C’è sì, in Freud e Jung, una forza individuale
studiata, compresa, e per questo tenuta a bada, ma ce n’è anche un’altra,
universale e collettiva, contro la quale non si può fare nulla.
È chiaro che il vero
personaggio cronenberghiano è il Carl Jung di Fassbender, inseguito dalle
proprie paure e dalla propria ambizione, ma lo è altrettanto che tocchi al
Freud di Mortensen prendere coscienza dei limiti della civiltà occidentale. È
Freud che nella scena chiave del film, di fronte allo skyline di New York,
domanda all’allievo e collega: “lo sanno queste persone che stiamo portando
loro la peste?”. Perché sarà proprio da quel momento che, con l’arrivo delle
sue teorie negli Stati Uniti, sorgerà il legame virtuoso tra psicanalisi, arte
ed ebraismo alla base della cultura americana e, di conseguenza, occidentale.
“Siamo ebrei, lo saremo per sempre”, dice ancora Freud, intimando a Jung di non
atteggiarsi a Dio, di non assecondare la tentazione a scavare negli abissi
dell’inconscio, e di tenere invece desta l’attenzione verso i comportamenti
umani.
Lo scontro intellettuale
che divide i due scienziati è in fondo quello che informa l’intera cultura novecentesca.
Quello tra mito e cultura. Tra il delirio sciamanico della parola di Dio e il
controllo razionale della narrazione romanzesca. Tra la tentazione (di Jung)
della discesa alle radici del comportamento umano, fino all’essenza che porta
alla liberazione, e la saldezza culturale di Freud, che discerne la psiche e
non prova a ridefinirla atteggiandosi a divinità.
Al di là di ogni rischio
didascalico, nello scontro tra segni psichici puri come quelli raffigurati da
Jung e Freud, il mistico e il razionale, il cattolico e l’ebreo, il figlio
prodigo e il padre, Cronenberg interroga l’origine dell’arte, la necessità di
interpretare il mondo attraverso la parola, trovando in un cinema romanzesco
parlato a dismisura quella forma di controllo fragile e in fondo fallimentare
che è l’unica che possediamo per continuare a raccontare e raccontarci.
Dalla conoscenza
dell’inconscio, e dalla fatale attrazione per le sue dinamiche oscure, è nata
la cultura contemporanea, poi sviluppatasi come un sogno di completezza continuamente
abortito. Nell’ironia del Freud di Mortensen non può così non esserci la
consapevolezza di un’indagine sia scientifica sia artistica tanto necessaria,
addirittura inevitabile, eppure parziale: l’unica che la nostra società abbia
sviluppato per darsi un ordine.
Cronenberg, che per anni quell’ordine l’ha
stravolto, ora ha paura di ciò che ha visto. E con il suo film cesellato come
un romanzo dalle mille stesure sembra credere che il suo sia stato un metodo
per fare cinema straordinario, ma troppo pericoloso.
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