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Il cineocchio: 29 febbraio - 1 marzo

L'amore che resta di Gus Van Sant


Sinossi

Durante una delle veglie funebre a cui partecipa quotidianamente, il giovane orfano Enoch incontra la coetanea Annabel, bellissima e solare nonostante sia affetta da un male incurabile. Tra i due ragazzi nasce un amore intenso e fragile, che insegna al solitario Enoch, il cui unico amico è il fantasma di un soldato giapponese, la preziosa bellezza della vita.


L’amore che resta, strana versione italiana dell’originale Restless (chissà, forse i distributori hanno pensato all’assonanza tra rest e restare, quando invece il significato del titolo è “senza tregua”, “inquieto”), è un esempio contemporaneo di melodramma hollywoodiano, argomento molto delicato per il cinema contemporaneo. Perché a Hollywood il melodramma non viene più praticato come genere a sé, ma come sottotraccia di altri racconti, di altre storie, di altre atmosfere. Il melodramma scorre in quasi tutta la produzione mainstream, nelle commedie come nei film d’azione o in quelle drammatici (pensiamo ad esempio a Inception o a Il curioso caso di Benjamin Button), ma non viene quasi mai affrontato direttamente, come storia d’amore e di morte, di impedimento e di sofferenza psicologia.



Con L’amore che resta, invece, Van Sant riporta il melodramma in superficie, ne affronta la dimensione malinconica e funebre con una storia di amore impedito dalla morte, una storia di fantasmi reali e fantasmi della mente, di funerali e di ospedali, di luoghi oscuri dove fare l’amore e altri alla luce del sole dove vivere la malattia. La bellezza del film sta nella sua semplicità: è una produzione indipendente e al tempo stesso hollywoodiana (formula ormai tipica per le produzioni medio-alte), un teen movie potenzialmente influenzato dall’estetica dei vampiri emaciati alla Twilight, fondato per questo motivo sul carino, il minimale, il vintage, eppure ha il sapore di un film classico pieno di particolari, di oggetti, di dialoghi sottili e di personaggi e di situazioni cariche di simbologia (i funerali rituali, il fantasma del soldato giapponese, la ragazza che salva il suo amore sacrificando la propria vita, l’orfano che accompagna verso la morte). In un contesto che ha sdoganato il cinismo sentimentale o la sua controparte dolciastra, Van Sant realizza così una sorta di risarcimento per quei sentimenti universali e spesso banali - l’amore, la paura, la speranza - che il melodramma ha sempre rappresentato in modo sincero.



Con L’amore che resta, inoltre, Van Sant, regista da una quindici d’anni sospeso fra underground e industria, fra Belli e dannati e Milk,  fa finalmente i conti con la tendenza hollywoodiana del suo cinema. Tutto nel film come la canzone Happy Birthday del cantante americano Sufjan Stevens (uno dei simboli della cultura indie) che si ascolta durante il film: dolce e infinitamente triste, I’m happy e I’m sorry, felice e dispiaciuto… Un’altalena di emozioni che sulla scena arriva come un sentire unico, la condizione insicura e ideale di un’adolescenza splendida perché effimera, pura perché costretta a fare i conti con la malattia e la morte. Quello che resta sull’asfalto dei due nuovi piccoli eroi di Van Sant non è nemmeno più un corpo, come succedeva nel celebre finale di Belli e dannati, è una traccia in gesso che ritaglia la sagoma di chi è in vita ma flirta con l’aldilà e di chi sa di morire e fa di tutto per vivere.

La simbologia è evidente, forse scontata, e fa parte della necessità di ricorrere a uno stile classico per parlare oggi di giovinezza con i canoni di un underground che nel frattempo è diventato indie e ha interpretato la controcultura secondo un individualismo fragile e sussurrato. I personaggi di Van Sant, anche se cupi e condannati, sono solo belli, non più dannati, e alla deriva della droga preferiscono l’intimità di un rifugio personale, con il corpo che rimane ancora disteso ma inquadrato dall’alto, non in campo lungo, escludendo l’orizzonte dall’inquadratura e togliendo allo spettatore il conforto della strada e delle nuvole in viaggio.

Se per caso, insomma, ci si è mai chiesti perché a un certo punto della sua carriera Van Sant abbia scelto di guardare anche a Hollywood, ora possiamo intuirne il perché: per non cadere nella trappola della confezione, per tenere in vita il suo cinema con l’onestà e la pulizia  di un racconto che non ha paura dell’ovvio, dell’amore impossibile, della morte giovane, del dolore compiaciuto, per parlare dell’universale.

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