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Film della settimana - 1 febbraio

Venere nera di Abdellatif Kechiche



Sinossi
Londra, inizio del XIX secolo. Saartjie Baartman è una donna sudafricana appartenente al popolo dei Khosan che, a causa del fisico prominente e di particolari organi genitali, viene esposta nelle fiere come un fenomeno da baraccone. Trasferitasi a Parigi con il suo “padrone”, diventa prima il trastullo osceno della borghesia, poi l’oggetto di studio degli scienziati e infine una prostituta gravemente malata. Morta il 29 dicembre 1815, verrà conservata ed esposta come calco in gesso (con il cervello e i genitali in formaldeide) per quasi due secoli al Musée de l’Homme, prima di essere restituita al Sudafrica nel 2002.



Dopo il premiato Cous cous, uno dei film più importanti degli ultimi anni, folgorante racconto sulle nuove radici multiculturali dell’Europa, il francese Abdelatif Kechiche racconta la storia vera della “venere ottentotta” Saartjie Baartman, giovane ragazza sudafricana che all’inizio del XIX secolo per mano bianca e guinzaglio del nascente show business divenne fenomeno da baraccone tra Londra e Parigi. Magnifico e terribile, Venere nera è una discesa agli inferi dello sfruttamento voyeuristico e dell’esotismo razzista, una potente riflessione sullo sguardo e le sue miserie collettive.

Spietato come nei suoi film precedenti, Kechiche non prende la scorciatoia dell’emozione, mantiene il cinema a un livello di impegno e sfida allo spettatore: mostra i corpi con la distanza dello scienziato e del polemista, facendone una questione sgradevole di primi piani ossessivi di carne, seni sgualciti, mani e bocche protese per toccare, sguardi voraci che si duplicano e s’intendono tra schermo e platea. Quasi come se fosse il film a guardare lo spettatore, e non viceversa, Venera nera è un atto d’accusa contro la pornografia dello sguardo e il razzismo delle pulsioni: in tal senso, per quanto ostico, ossessivo, esagerato, a tratti insostenibile, è un film di straordinaria modernità. Anzi, proprio in virtù della sua dimensione sinistra e greve, si impone come un’opera necessaria.

Passando dai bassifondi alla Dickens alla mondanità libertina alla De Laclos fino alla prostituzione che regala alla Traviata nera una mortal sifilide, il film procede per larghi blocchi narrativi, capitoli di un racconto dominato dagli occhi umili e infelici di una migrante costretta ad aprir le gambe davanti a uomini illustri dell’accademia. Uno stupro visivo che ora chiede postumo risarcimento. Animato dall’interno dalla straordinaria non professionista Yahima Torrès, il film porta sul banco degli imputati la civiltà occidentale e la cultura del pregiudizio senza far morale né pronunciar sentenze ma indagando come una gastroscopia collettiva, partendo dalla carne, uno spirito ancora più malato.

Venere nera è un’opera a tesi, esplicita e politica. Tunisino da tempo insediatosi in Francia, Kechiche non si è mai del tutto rassegnato all’idea di tolleranza che la ricca Europa ha riservato alla lontana Africa, e in questo caso torna a strabordare come in La schivata, con le dinamiche di potere e schiavitù innescate dallo sguardo che si appropriano di un’estenuante estetica dell’eccesso. Venere nera risale all’origine della società dello spettacolo e ne scopre l’immoralità: nel legame tra la voracità dell’occhio e la fragilità del corpo umano individua la nascita del capitalismo, il suo dominio e soprattutto il suo sopruso economico e culturale.

Ambientato a inizio XIX secolo, nel periodo in cui si gettavano le basi del futuro colonialismo imperialista delle potenze europee, il film racconta il connubio tra politica economica, teatro spettacolare e, di rimando, cinema, nel segno di una violenza che non è solo fisica, ma anche sottile e invisibile: Kechiche, insomma, ci va giù pesante e non lascia spiragli di redenzione per la nostra cultura. La sua rabbia è onnicomprensiva e per quanto cieca, ci vede benissimo. Giocato sulla ripetizione, condannato dalle sue intenzioni a mostrare la violenza dell’occhio come gesto ignaro ma omicida, Venere nera getta in faccia allo spettatore la tragedia umana di una donna impotente e sola, trasformata nell’emblema delle future violenze reali o mediatiche del XX secolo. Dai freak show di fine ’800 deriva infatti il voyeurismo contemporaneo, che ci porta a guardare con affascinato orrore i corpi dell’Olocausto, gli effetti del napalm sui corpi delle bambine vietnamite o le decapitazioni in streaming di qualche gruppo fondamentalista. Tutto vero e tutto ancora più spaventoso in quanto rivolto dal cinema contro se stesso – contro una intrinseca e inestirpabile barbarie dello sguardo.

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