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Film della settimana - 8 febbraio

Poetry di Lee Chang-dong



Sinossi
Un’anziana donna, affetta dal morbo di Alzheimer e giunta alla fine dei suoi giorni, cerca di dare un altro senso alla sua esistenza rifugiandosi nella poesia. Le rime e i versi sembrano oramai essere una delle poche cose fondamentali nella sua vita, soprattutto dopo il drammatico avvenimento che ha segnato la sua esistenza: l’amato nipote affidato alle sue cure è coinvolto nell’aggressione di una compagna di scuola che, in seguito, si è suicidata.



Uscito a sorpresa nelle sale italiane la scorsa estate, dopo un passaggio al Festival di Cannes nel 2010, il sudcoreano Poetry è l’ultimo film di uno dei massimi registi del suo paese, Lee Chang-dong: un autore sconosciuto al pubblico italiano, ma pluripremiato in manifestazioni internazionali e considerato un vero e proprio maestro.

Nel film ci sono tutti i temi cari al regista: la constatazione di abitare in un mondo distorto, la negazione del diritto alla serenità, il sentimentalismo appena accennato e bloccato a un passo dallo sfociare nel melodramma, l’ossessione per immagini di quiete sociale che nascondono abissi di dolore.

Ambientato in una placida cittadina della provincia coreana, immerso in un clima ideale e guidato dalle movenze stanche di un vecchietta tenera di cuore, al contrario delle sue iniziali apparenze Poetry è un vero pugno nello stomaco: uno schiaffo morale, un racconto spietato che parla di memoria e responsabilità, di bellezza e fallimento, ambiguo perché racchiuso nella mente disturbata dall’Alzheimer. Il tema è fortissimo e cozza volutamente con la messinscena naturalista e luminosa, pronta al tempo stesso a fare del buio il vero sfondo della sua realtà. Controllato e al tempo stesso eccessivo, scioccante nella sua esibita normalità pronta a essere ribaltata, il film si interroga sui limiti dell’orrore nella società degli uomini, gettando in faccia allo spettatore l’insieme di ipocrisie che si dipanano nel nome della stabilità.

La poesia, affrontata dalla protagonista come un insieme di velleità sentimentali e sfocate, non è solo compassione e consolazione: è anche un metodo per guardare e capire. L’unico forse che possa aiutare una povera signora ammalata a venire a patti con l’inaccettabile. Il tutto raccontato pacatamente, per cerchi concentrici, lasciando il male sullo sfondo per dedicarsi al quotidiano, le serate poetiche, la Natura.

Lee Chang-dong ha il coraggio dei silenzi, delle pause, delle inquadrature fisse e dei panorami che da geografici si fanno interiori, come se lo stile riflettesse la coscienza della donna e trovasse nella sua figura e nelle sue parole un nuovo rapporto tra vita e morale. Non è un mélo, Poetry, non fa piangere, e quasi quasi arriva a un lieto fine (o quanto meno, a un giusto fine). Lee Chang-dong poteva affrontare questa storia in tanti modi, compreso quello neorealista a lui caro e per certi versi consono a questo escamotage narrativo, invece decide di inquadrare questo spaccato della società di provincia coreana all’interno di una riflessione più alta. Da una parte una realtà squallida e inaccettabile, dura e cruda, che dice molto dei giovani nella Corea di oggi, dall’altra una condizione di vecchiaia che porta un allontanamento da quella stessa realtà, sfumandola attraverso la perdita della memoria. Diceva il poeta russo Kataev che il senso della poesia è dare un nome alle cose. Ecco, immaginiamo allora quale necessità assume tutto ciò per una persona che sta perdendo pian piano il nome delle cose

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