Sinossi
Another Year è un classico film di Mike Leigh, grande regista inglese che da almeno trent’anni racconta la vita quotidiana degli uomini e delle donne del suo Paese mettendone in scena con realismo critico e compassionevole emozioni e dolori, ricchezze e povertà, per citare il titolo del suo più famoso e bello, “segreti e bugie”. Come sempre, è una commedia dei sentimenti fatta di dialoghi fitti e scritti in stato di grazia, interpretato da attori di razza e da lungo tempo collaboratori di Leigh, i quali danno vita a individui normali, colti all’interno delle loro abitazioni e in momenti quotidiani delle loro esistenze, alle prese con problemi normali e sentimenti universali. Cinema naturalista, si sarebbe detto un tempo: cinema dove il tempo è il vero protagonista, dove il racconto è scandito dal passo inesorabile delle stagioni e contrapposto agli umori mutevoli delle umane questioni, tra felicità e dolore, amicizie consolidate e altre distrutte, tra soddisfatti e disperati, cinici e vittime, benintenzionati e autodistruttivi.
La cosa stupefacente, infatti, è il modo con cui il dramma esce allo scoperto, senza che la patina della commedia leggera venga minimamente scalfita, ma solo leggermente incrinata da rapporti che dall’amicizia rischiano di scivolare pericolosamente verso lo sfruttamento. Tra dubbi sulla moralità dei personaggi e certezze sulla loro spietatezza, ci si chiede perché Gerri e Tom continuino a considerare Mary una loro amica, se non per riflettere la loro serenità di coppia cinquantenne contro la disperazione della donna inutilmente a caccia d’amore, contro la solitudine rabbiosa del padre di lui o l’alcolismo del migliore amico Ken (al quale comunque va il merito di confezionare la miglior gag del film – ché sì, Another Year è un film dove si ride molto – quando sfoggia la t-shirt con la scritta “Less Thinking, More Drinking”).
Benestanti e un po’ attempati, sicuri della loro serenità, della loro casa tipicamente inglese e delle loro placide abitudini – un orto fuori città, le visite del figlio, i ricordi dei viaggi – ama circondarsi di amici che in realtà hanno un ruolo ben preciso: sfogare con loro i problemi di una vita triste e sfortunata e rendere ancora più luminosa la bellezza altrui. Il tempo passa, le stagioni scandiscono l’esistenza, ma nella vita dei due protagonisti nulla cambia, né la loro gentilezza, né l’infelicità di quelli che loro vorrebbero aiutare.
La scena iniziale, con una fantastica Imelda Staunton che in un consultorio sfoga la propria disperazione alla protagonista (che di mestiere fa l’assistente sociale) e quella finale, con un piano sequenza magistrale che dà il senso dell’intero del film, sono le cose migliori del film: in un caso è un intenso primo piano a dare al cinema quella profondità e quella potenza espressiva che gli servono per esporre la verità nella sua crudezza e restare impotente di fronte al dolore; nell’altro è un’unica inquadratura che, presentata nel finale di un film al contrario fatto completamente di primi piani e campi-controcampi, con un movimento circolare abbraccia i personaggi e li lascia sulla scena con la loro spietatezza o il loro dolore.
Se il tempo ci rende tutti uguali, vittime delle stagioni che passano, degli anni che si sommano ad altri anni, le relazioni umane con le loro piccole e grandi meschinità ci distanziano: il piano sequenza è unico, ma le vite no, perché le vite si dividono fra quelle dei fortunati e quelle degli sfortunati, tra quelle dei belli e dei brutti, tra quelli che hanno viaggiato in Australia e quelli che disperazione non sono mai usciti di casa. E anche la più leggera e soave delle commedie, con un finale del genere, in pochissimi minuti, può trasformarsi in una parabola esistenziale spietata e realistica.
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