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Film della settimana - 20 aprile

Hereafter di Clint Eastwood

Sinossi
George è un operaio americano che vive a San Francisco cercando di contrastare la sua facoltà di mettersi in contatto con i morti; Marie è una giornalista francese che, trascinata in acqua da uno tsunami in Indonesia, vive un’esperienza tra la vita e la morte dalla quale rimarrà sconvolta; Marcus è uno studente londinese che ha perso il fratello gemello Jason in un incidente stradale e, da allora, cerca disperatamente delle risposte. Le domande che tengono in scacco le loro vite sono per tutti le stesse: cosa succede dopo la morte? Come può una persona scomparire per sempre? Chi rimane come può continuare a vivere?



Il nuovo film di Clint Eastwood, il primo diretto dopo aver superato la soglia degli 80 anni e il secondo, dopo Invictus, di una stagione che lo vede sempre più protagonista del cinema contemporaneo, è forse il più controverso della sua carriera. Se infatti la vulgata vuole che il grande Clint, da Birds in poi, ed era il 1988, abbia diretto solo capolavori, in realtà, oltre a veri e propri capolavori (Gli spietati, Un mondo perfetto, I ponti di Madison County, Mystic River, Million Dollar Baby, Letters from Iwo Jima) la sua filmografia conta anche film minori su cui la critica si è sempre trovata relativamente d’accordo (Space Cowboys, Patto di sangue e magari anche il recente Invictus). Con Hereafter, invece, come si dice in questi casi, il banco è saltato: di fronte a un film (forse) mediocre, di fronte a una storia in odore di new age appartenente più a Spielberg (che produce) che a Eastwood, la critica nostrana ha perso la bussola, gridando al capolavoro a prescindere, definendo il film dickensiano solo perché nella storia si parla tanto di Dickens e si vede pura la sua casa-museo a Londra.

Eppure Hereafter non è nemmeno un film sbagliato, perché le motivazioni date da alcuni critici col pollice all’insù sono tutt’altro che infondate. Il noto critico Bruno Fornara ha infatti notato come l’intero film si costruisca attorno alla parola aldilà, traduzione di hereafter (e chissà perché nella versione italiana è rimasta in inglese). “Ovvero, scrive Fornara, “quello che c’è (se c’è) after here, dopo qui. Ma here e after, in sequenza, dicono il contrario, indicano prima il qui e poi il dopo: e va detto subito che Eastwood è molto più interessato al qui che non al dopo. Perché è di questo, della vita e non del dopo vita, che parla il suo ennesimo grande film. Tante vite, spezzate da uno tsunami o da un attentato nel metrò. E tante altre vite, quelle dei sopravvissuti, di chi è stato travolto e risputato fuori dalla valanga d’acqua, di chi non è salito, per via di un cappellino, su quel vagone del metrò, di chi si ritrova a vivere da solo dopo aver perduto una persona cara, un fratello gemello, una moglie o un padre (violento). Di chi continua faticosamente a vivere con sul cuore il ricordo e il peso di una persona che se n’è andata. Le vite dei sopravvissuti sono al centro di Hereafter. L’aldilà dei morti c’entra poco: è visto in maniera confusa e soffusa, con ombre inafferrabili e vaganti, sommerse da una luce troppo bianca come in un’Ade accecante, forse pacificato ma individuale, dove ogni ombra non ha rapporti con le altre. L’aldilà che i quasi morti intravedono e che appare come in un lampo a George quando stringe o anche soltanto sfiora le mani di una persona, questo aldilà così incerto, uguale ed eterno (monotono per l’eternità?), non sta al centro del film. Al centro, c’è il dolore per la perdita di qualcuno che si amava, o anche l’impossibilità di dimenticare chi, quand’era in vita, ti ha ferito nel profondo”.

Tutto vero e convincente, ma anche parziale. Perché un film non vale solo per quello che dice, questo lo sanno anche i bambini, ma anche per come lo dice. Ed è forse proprio nello stile che questa volta Eastwood convince meno di altre occasioni, optando per soluzioni classiche ma scontate (la visione dell’aldilà, ad esempio, contrariamente a quanto scrive Fornara, o ancora la scena dell’incidente nel metrò) e soprattutto per una dinamica delle situazioni macchinosa e non così illuminata. Secondo gli autori di Hereafter (e buona parte ce l’ha avuta lo sceneggiatore Peter Morgan, lo stesso di The Queen, Frost/Nixon e I due presidenti) la soluzione per chi è diverso è la conferma della propria esclusività, l’impossibilità di unire gli opposti e la scelta obbligata di restare con i propri simili, in nome della propria diversità. E se da sempre, e soprattutto nel dittico sulla battaglia di Iwo Jima o in Gran Torino, il cinema di Eastwood avvicina gli opposti, li mette a confronto, li unisce per l’appunto, con Hereafter sembra dire il contrario, chiudendo su un finale che è sì lieto ma arrendevole.

Poi, certo, c’è la prima sequenza dello tsunami che è davvero strabiliante, la dimostrazione, da parte di chi non dirige film d’azione da anni, di come si possano usare gli effetti speciale in modo assoluto ma concreto, un momento di grandissimo cinema che vale qualsiasi altro blockbuster catastrofico. Ma non basta, questa volta. O almeno per chi scrive. A meno che non si consideri la veemenza del dibattito critico come il segnale che in fondo il film funziona: perché scuote, divide, appassiona, irrita. In fondo il grande cinema è anche questo. E Clint Eastwood resta nonostante tutto un grandissimo: per qualcuno, dopo Hereafter, ha un capolavoro in più nella sua filmografia, per altri invece no.

Non resta quindi che il giudizio del singolo spettatore, l’unico in realtà a contare per davvero.

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