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The Social Network di David Fincher


Sinossi
Harvard, 2003: Mark Zuckerberg, studente d’informatica geniale e nerd, violando il server della suo campus inventa un sito in cui raccoglie le foto di tutti gli iscritti alla sua università. Sarà il punto di partenza del portale che ha rivoluzionato il mondo, Facebook, e che per i ragazzi che l’hanno inventato (i famigerati “milionari per caso”) sarà un’inesauribile fonte di denaro e la causa di dispute legali e di amicizie finite.



Difficile da prevedere, ma molto probabilmente in futuro The Social Network sarà considerata una delle opere-specchio dei nostri tempi. Un film epocale che ci accorgeremo aver raccontato il proprio presente nella sua qualità più pervasiva e invisibile: la sua assenza. The Social Network è un film sul nulla che ci circonda e sulla totalità che lo propaga. Impotente nell’affrontare la nullità della propria materia, assorbe in un torrente di parole e in un intreccio inesistente l’inconsistenza materiale della rivoluzione apportata da internet e dal web 2.0.

Non è visivamente interessante, non è avvincente da un punto di vista narrativo, non racconta nulla di esaltante: ma nell’evidente inerzia della sua struttura ripetitiva e, all’opposto, nel ritmo eccessivo che la ravviva (fin dalla prima sequenza, con lo scontro di parole tra Zuckerberg e la fidanzata rapido come il botta e risposta di una chat) risiede la sua profonda consapevolezza.

The Social Network è un abisso dello sguardo cinematografico di fronte alla profondità imperscrutabile di internet: non lo racconta, cioè, visivamente, ma ne visualizza la realtà inesistente e l’invisibile invasione della sfera privata che ha messo in moto. Perché la natura di internet è per essenza la sua totalità, il fatto di avere il mondo a portata di dita e dunque di parola. Internet è globale, infinito, impalpabile ma inconfutabile.

Alle prese con una sceneggiatura perfetta e verbosissima (non a caso premiata con l’Oscar), il regista David Fincher condanna il suo film ad assumere l’incertezza del cinema di fronte alla comunicazione diretta dei social network, cercando di recuperare con la foga della parola un’immediatezza che sa di non possedere. Un’operazione non diversa da quella tentata con un altro suo film, Zodiac, che incorporava l’estetica sciatta e traballante delle immagini anni ’70 per rivivere il periodo in cui operava il serial killer inesistente, o ancora con il precedente Il curioso caso di Banjamin Button, che restituiva in termini visivi il sentimento di un secolo e la sua memoria (la Prima guerra mondiale, la Russia sovietica, Tennessee Williams, Da qui all’eternità, Il selvaggio). Con The Social Network, invece, di fronte alla dimensione umana eppure inafferrabile dei rapporti virtuali, Fincher rinuncia alla concretezza del cinema, annullando la fisicità dei protagonisti (come il web annulla sempre e comunque il corpo, trasformandolo in icona) e rendendoli scatole vuote che si sparano l’uno contro l’altro parole su parole.

Tutto questo, naturalmente, a partire da una contraddizione primigenia ancora più dolorosa e decisiva di quella che separa il cinema da internet: quella, cioè, che salda la virtualità dei rapporti creati dal web con la solitudine esistenziale di Zuckerberg, persona astiosa e incarognita che nel film mette in pratica l’azzeramento delle proprie amicizie per diventare il pifferaio di Hamelin delle nostre.

Stupito e indignato dalla parabola del suo incredibile successo, The Social Network è il solo racconto per ora esistente sul potere senza volto di internet. La vicenda di Zuckerberg, il quale, al di là della veridicità del ritratto imbastito da Sorkin, resta un nerd trasformatosi in milionario, incarna una variante di sogno americano inedita e inquietante, totalmente interiorizzata e in cerca di un’affermazione che sfugge ai tradizionali canoni dell’ambizione: non potere economico, lusso o donne, ma controllo totale degli altri attraverso l’assorbimento della loro identità. Come Howard Kane con la carta stampata o i tycoon del cinema e della tv, ma con un mezzo che consente di allestire concretamente una dimensione altra – una second life – dove essere padroni assoluti delle vite altrui.

Passivo, inerme e calcolatore, Zuckerberg controlla con le sue dita le nostre amicizie virtuali, così come noi crediamo di controllare quelle reali. Non diverso dal fascista novecentesco di Post mortem, eroe senza qualità che godeva del proprio potere, è semplicemente un fascista contemporaneo, un volto pulito che ha conquistato, insieme a pochi altri, un mondo che consideriamo presente, ma che in realtà non esiste o esiste solo grazie al nostro consenso. Se dieci anni fa simili inquietudini globali aveva dato vita a Matrix, ora le cose sembrano peggiorate: il virtuale riscatta la realtà, fiumi di denaro ne giustificano l’esistenza e in giro non si vedono nemici da combattere, ma solo sudditi lieti di affidare a uno sconosciuto i loro dati personali.

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