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Post mortem di Pablo Larraín


Sinossi
Cile, 1973. Mario, cinquantenne impiegato di un obitorio, uomo triste e solo, corteggia senza speranze la vicina di casa, una spogliarellista più giovane di lui. Il colpo di stato di Pinochet, con la conseguente uccisione del presidente Allende, cambia le cose e tra i cadaveri accumulati negli ospedali e i militari che danno la caccia agli oppositori, Mario si trova per la prima volta in vita in una posizione di potere.


Post mortem, terzo film del regista cileno Pablo Larraín, nasce dalla medesima ossessione che faceva del precedente Tony Manero uno psicodramma grottesco che ancorava l’identità del Cile contemporaneo alla realtà ineludibile della dittatura militare. Riprende gli anni ’70, affronta nuovamente il colpo di stato di Pinochet e il conseguente clima di paura e di morte per le strade di Santiago, ma non sceglie una metafora che faccia da filtro per l’interpretazione, bensì va dritto al cuore del trauma, agli eventi del settembre 1973 che portarono al rovesciamento del governo socialista e all’insediamento di una giunta militare tramite colpo di stato e uccisione del presidente in carica Salvator Allende.


Il Cile di oggi non può che ripartire da lì, da un riferimento usurato ma mai del tutto superato, ancora in grado di soffocare l’immaginario di un paese e condannarlo a una sete di narrazione e mitologia che porta ad aggrapparsi a qualsiasi evento di portata nazionale, alla tragedia di uno dei terremoti più devastanti della modernità o alla favola per fortuna a lieto fine dei minatori sepolti vivi dal crollo di una galleria sotterranea. La calamita della Storia, però, è più forte del desiderio di ripartire, continua ad attirare vittime ignare perché figlie di un compresso mai accettato eppure pienamente realizzato: il compromesso, cioè, con l’idea che la dittatura militare sia il momento fondativo della moderna società cilena.

Per Larraín, nato nel 1976, tre anni dopo la morte di Allende, la violenza sia esplicita sia invisibile dell’era Pinochet è una condizione prima di tutto naturale, un peccato originale inconfessabile ma necessario, perché unica realtà esistente per il suo paese e le persone della sua generazione. La colpa sta proprio nell’ineluttabilità di questo destino, in una condizione tanto storica quanto naturale di cui Larraín si sente partecipe e che sta alla base dell’antropologia negativa dei suoi due film idealmente quasi indistinguibili.

Post mortem, dunque, è l’intera vita della società cilena, assuefatta e non più scandalizzata dalla morte e abbandonata al rumore sordo della propria indifferenza: come succede a un medico specializzato in autopsie, all’infermiera sua assistente o all’impiegato addetto alla trascrizione dei risultati, ma non per motivi scientifici, bensì esistenziali. Lo sconforto e l’abbandono sembrano possedere lo stesso Larraín e il modo con cui osserva impietrito la realtà del suo paese. Con Post mortem sceglie di aggiungere il potere alla stupidità, facendo di Mario, il suo uomo senza qualità che prende in mano il proprio destino, un fascista provetto, indifferente, violento e ambizioso.

Eppure, al fondo di questo percorso di spietata autoanalisi, Larraín trova la forza di reagire. Non ci sta, non si arrende, attesta l’esistenza del male come fondamento etico del suo popolo, ma si chiede come esorcizzarlo, prosegue nel buio della Storia per arrivare al punto di partenza della spirale che fino a questo momento, in una filmografia che dopo soli due film è già considerata d’autore, lo ha trascinato verso il basso e la perdizione.

Larraín sa benissimo dove vuole arrivare, sa benissimo qual è il rimosso collettivo della sua nazione: solo ci vuole arrivare preparato, e soprattutto vuole preparare il suo pubblico. Per farlo gira attorno al problema, gli si avvicina a tentoni, gioca coi tempi di attesa e di preparazione, fa capire ma non mostra e si limita a suggerire (quanto somiglia l’immagine del dottore con l’elmetto all’ultima foto esistente di Allende, schiacciato dal casco militare e impaurito dalla prossimità della morte?): si capisce fin da subito dove si arriverà, ma non quando e non come.

Ossessivo e magari pure passatista, Larraín non si dà pace per una colpa che la società cilena incarna pienamente e nella quale non può non riconoscere la propria origine. La sua antropologia negativa da naturale si fa storica, le colpe da collettive singole, all’interno di un contesto politico, culturale e sentimentale che trova nella violenza l’unica risposta al cambiamento e all’incomprensione.

Il corpo morto di Allende, il corpo di stato che Larraín mette all’origine del suo cinema, con la sua presenza magnetica realizza il vero obiettivo del regista: la messinscena della coscienza sporca di un intero paese, l’incontro con il rimosso ritorna sotto altre forme. La sua operazione non potrebbe avere un valore più cinematografico, con un corpo umano che si trasforma in correlativo oggettivo dalle implicazioni storiche ed etiche di una nazione.


Oltre Larraín non può e non vuole andare. La sua ricerca trova un approdo, ma non una palingenesi; la lucidità con cui affronta il cuore nero del suo paese giudica ma non redime, osserva ma non modifica. L’accumulo di cadaveri nell’ospedale di Santiago è pari all’accumulo di detriti con cui Mario, nel finale del film, realizzato con uno piano fisso infinito e irrimediabile, seppellisce vivi Sandra e il suo amante. Persone e oggetti sono posti sullo stesso piano, la follia del potere genera la follia dei singoli e l’indifferenza con cui i militari uccidono uomini e donne si ripercuote nella premeditazione con cui Mario uccide il suo amore, e prima ancora nella spietatezza con cui quest’ultima masturba il suo salvatore. Il pubblico si fa privato, proprio come si diceva nelle piazze italiane negli stessi anni del golpe cileno, ma finisce per stravolgerne ogni valore e travolgere la vita di chi è coinvolto nelle trame delle Storia.


Dalla violenza veniamo, insomma, e alla violenza ritorniamo come attirati da un centro che conosciamo, ma di cui abbiamo dimenticato volto e nome. Il discorso vale non solo per il popolo cileno, ma pure per il nostro, intrisi come ancora siamo del sangue generato dal terrorismo. Gli anni di piombo rappresentano per l’Italia una confluenza di derive pubbliche e private analoghe a quella cilene, una spirale di morte e paura che anch’essa ha trovato al fondo del proprio percorso un corpo da uccidere e rimuovere idealmente: quello di Aldo Moro, naturalmente, che attraverso un film come Buongiorno, notte ritorna come riferimento principale della presenza di Allende in Post mortem.

Anche là Bellocchio si avvicinava al corpo violentato di un uomo di potere per cercare una liberazione che nessun evento storico ha saputo attuare. E la trovava, infine, in uno scandalo visivo uguale e opposto a quello di Larraín, in una passeggiata di Moro lungo le vie di Roma, all’alba di un nuovo giorno impossibile. Un sogno, nient’altro che un sogno, ma anche un modo, il solo che il cinema possa realizzare, per far uscire il nostro paese dallo stesso cul-de-sac in cui sembra intrappolato il Cile di Pablo Larraín.

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