Sinossi
In un monastero sui monti dell’Algeria, verso la metà degli anni ’90, otto monaci cistercensi francesi vivono serenamente con la comunità musulmana del luogo: curano le persone, coltivano la terra, pregano e vivono in comunione e povertà. Ma il paese è sconvolto dalle stragi degli integralisti e nonostante le autorità offrano protezione e il governo francese li richiami in patria, gli otto uomini decidono di seguire fino in fondo la loro missione.
Ispirato a un fatto realmente accaduto, al martirio di un gruppo di monaci francesi sulle montagne dell’Algeria, Uomini di Dio di Xavier Beauvois, che concorre alla cinquina dei film stranieri nominati per l’Oscar, non è un film di denuncia o la ricostruzione di un tragico fatto di cronaca. Anche se le responsabilità di quel massacro non sono mai state chiarite, Beauvois sceglie di restituire il messaggio di pace e di convivenza che quei monaci hanno messo in atto nella realtà e cerca la forza del loro esempio, non tanto nei discorsi un po’ troppo programmatici tra cristiani e mussulmani, ma nelle scene di vita quotidiana, nel senso di amore per la natura che i trappisti coltivano, nel rispetto tra uomini e cose che si legge nei gesti di tutti i giorni.
Uomini di Dio non è un documentario, come il celebre Il grande silenzio di Philip Gröning, o un film punitivo. È un apologo civile e religioso in forma di film, girato con un pudore degno di Robert Bresson, ma anche con una tensione emotiva e narrativa degna, qua e là, di un thriller. Il regista ci porta dentro il monastero e ci fa condividere la quotidianità dei monaci. Che è fatta di preghiere e di canti, di lavori nell’orto e di visite mediche agli abitanti del villaggio, ma anche di colazioni mattutine e di pranzi molto parchi, di piccole ripicche e di innocenti gelosie.
I sette monaci protagonisti sono raffigurati come individui normali e dignitosi, uomini di preghiera e condivisione costretti a trasformarsi in eroi (o in samurai, come ha notato qualcuno, essendo in sette!). La loro vita è fatta di cose semplici, raccontate dal film con una forza, una sobrietà, una verità d’accenti che sono merce rara nel cinema d’oggi. C’è la vita quotidiana di quegli uomini che avevano scelto un paese islamico per la loro missione. C’è il loro impegno dentro e fuori dal monastero, le preghiere in latino e in arabo, il lavoro con gli abitanti di quel paesino fra i monti dell’Atlante, l’incanto di un paesaggio così vasto e incontaminato da generare insieme contentezza e sconcerto, il monaco dottore (fantastico l’anziano attore francese Michel Lonsdale) che cura gratuitamente chiunque ne abbia bisogno (compresi i terroristi). E poi c’è lo sgomento che si impadronisce dei monaci quando gli integralisti iniziano a insanguinare la regione, e capiscono che come cristiani anche loro sono bersagli esemplari; l’attesa trepidante di un incontro che sperano non avvenga mai; la scoperta non meno terribile che perfino in quell’incontro possono trovare modo di confermare, chiarire, rafforzare le loro scelte. I (rari) detrattori rimproverano a Beauvois di aver trascurato il contesto storico dell’ex-colonia e le vicende che stavano dietro ogni monaco (così belle che meriterebbero un film a parte). Ma lo sguardo limpido e fermo con cui seguiamo l’attesa dei monaci, la ridda di sentimenti umanissimi e contraddittori, il dibattito insieme pubblico e interiore che infine decide tutti a restare, hanno la forza di un film di Dreyer e la schiettezza, l’umanità, il senso del gruppo di John Ford.
Uomini di Dio diventa così un gesto cordiale verso gli spettatori che non chiede altro che partecipazione emotiva. Lo si capisce a un certo punto, quando durante una cena i sette monaci ascoltano un’aria dal Lago dei cigni di Cajkovskij, la più famosa che si potesse scegliere, quella che tutti conoscono e sanno seguire con l’emozione. Il momento è lungo, intenso, la musica cresce e così i primi piani silenziosi dei sette amici che sanno il destino che li spetta. Beauvois non si risparmia la commozione, chiede la lacrima, ma non la forza, si mette semplicemente al piano degli uomini onesti e puri di cui parla, della loro saggezza e semplicità, al servizio delle loro passioni comuni e non ricercate, proprio come la musica di Cajkovskij, tanto meravigliosa quanto, per l’uso che ne viene fatto, scontata.
È in questo momento facile eppure bellissimo, che il film si erge a esempio consapevole di arte popolare, di bellezza accessibile a ogni forma di pubblico. Il film è una toccante riflessione su come la religione possa, da fonte d’amore, trasformarsi in odio: e il passo del racconto che Beauvois, proprio per via del suo messaggio, è quello più accessibile a tutti. L’importanza o la forza dell’arte non si riducono certo alla sua accessibilità, certo, ma l’equilibrio estetico di un film come Uomini di Dio, è una qualità rara: non per forza la migliore che il cinema possa avere, ma probabilmente, in tempi come i nostri, la più necessaria.
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