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Film della settimana - 23 febbraio

Inception di Christopher Nolan



Sinossi
Dom Cobb è un ladro: un ladro di sogni, uno che entra nella testa delle persone e passando di sogni in sogno ricerca segreti e informazioni nascoste. Al servizio dello spionaggio industriale, insieme ai suoi collaboratori questa volta non cerca di rubare, ma di innestare nella mente di un giovane rampollo un’idea controversa: ma più l’avventura prosegue e si complica, più Cobb capisce di essere lui il vero protagonista dei sogni in cui si immerge vorticosamente.


Raro esempio di blockbuster d’autore, di film commerciale finanziato con milioni di dollari, interpretato da star, venduto in quasi tutti i paesi del mondo, ma pensato dal suo autore con una libertà pressoché assoluta – cosa ormai impossibile a Hollywood, a meno che tu non sia il regista degli ultimi due Batman – Inception è un lavoro che scava in profondità: un sogno porta a un altro sogno e a un altro sogno ancora, facendo della reiterazione un movimento che non riproduce in copia, ma varia e aumenta lo spazio e il tempo in misura infinita. Il movimento del film è doppio, perché da un lato rifugge la realtà per immergersi nella dimensione onirica, ma dall’altro si immerge sempre di più verso il nodo della narrazione, cercando di risolvere il trauma che modificherebbe quella stessa realtà da cui si è fuggiti.

In questo senso, Inception è un film perfettamente classico che gioca con gli elementi di base della narrazione hollywoodiana, con effetti di condensazione e spostamento, con una struttura di rime (il ritorno dei ricordi/sogni di Cobb), sostituzioni (la presenza della moglie Mal, che in ogni sogno si trasforma in nemico diverso) e rotture (ancora Mal, che compare come riflesso dell’inconscio e costringe a passare di livello in livello) che rappresentano la fonte del racconto.

In Inception c’è un sogno – meglio, più sogni – e quei sogni, quei simboli, costituiscono il film stesso, la sua ricerca ossessiva di un trauma primigenio. Un trauma da cui nascerebbe ogni forma di racconto e che si rivela essere il trauma affettivo della separazione, l’impossibilità di unirsi con l’altro (da cui l’inevitabile creazione di mondi infiniti a partire dai sogni sempre diversi di ciascun individuo) e il fallimento della realizzazione di sé nella coppia, dunque nella famiglia, che per il cinema americano classico è l’unica forma di realtà possibile.

Il legame tra un padre e un figlio (che Cobb stesso vive su di sé, essendo un padre che ha abbandonato le proprie creature) è ciò che gli eroi del film cercano di mutare, entrando in modo clamoroso in una sorta di scena primaria del cinema americano. Con Inception è come se ci si avventurasse per la prima volta nel luogo dell’indicibile, di ciò che non si dovrebbe mostrare: è un viaggio costruito tappa dopo patta, sogno dopo sogno, in cui Christopher Nolan arriva a parlare del nocciolo stesso del cinema classico. È un viaggio che a ogni movimento penetra le apparenze del discorso. Ogni sogno è un colpo sferrato alla superficie del film, alla sua struttura, rappresentata con uno straordinario processo di visualizzazione come un luogo fisico esistente: ovvero l’immaginario personale del protagonista, l’isola sovraccarica di costruzioni che crollano con il passaggio da un sogno all’altro, accumulo enciclopedico e fragile di ricordi, desideri, speranze, ossessioni.

Mettendo in scena città che raddoppiano e si ritorcono su stesse, città immaginarie che collassano per lasciare scheletri di strutture, Inception dà forma visiva a quell’architettura dei sogni che è uno dei temi fondamentali della nostra società: è lo spazio il vero protagonista del film, mentre il tempo è un oggetto manipolato e relativizzato. Qui lo spazio è proiezione dei desideri e misura dei fallimenti, è l’immaginazione che sovrasta il senso della misura, che raddoppia all’infinito, specchio contro specchio, la figura di un uomo inserito in un contesto urbano, con un movimento a uscire uguale e contrario a quello che, invece, porta a un approdo unico, riconosciuto e riconoscibile: la casa unifamiliare di tanto cinema americano.

Perché anche Inception trova il suo punto d’arrivo laddove sta il cuore di ogni film classico, in quella dimensione simbolica che è la famiglia e in quel luogo altrettanto simbolico che è la casa. Ribaltando una formula spesso usata per definire i melodrammi, si potrebbe dire che qui heart is where the home is: «il cuore è laddove è la casa». Come già Shutter Island di Scorsese, con cui Inception presenta diversi punti in comune, la casa indica la fine di una peregrinazione soprattutto mentale. Con la differenza che Scorsese sceglie un immaginario cinefilo (Femmina folle di John M. Stahl), mentre Nolan ricontestualizza l’iconografia della casa unifamiliare americana.

Anche il Di Caprio di Inception, come il Di Caprio di Shutter Island, nel finale del fi
lm entra in una casa dove risiede l’origine di ogni sogno, dunque di ogni narrazione. La casa dentro cui lo aspetta la donna amata e perduta si erge sola e intatta in un agglomerato di grattacieli fatiscenti; l’estraneità della costruzione al luogo in cui è inserita è evidente, la sua apparizione rimanda alla forma nota e familiare di un luogo primigenio. Costruendo il film come una continua scissione di unità narrative, spaziali e temporali, scatole cinesi che si contengono l’un l’altra e slittano l’una sull’altra, Nolan giunge così al cuore del cinema, alla casa familiare americana che al suo interno contiene un’altra scatola (la cassaforte), che a sua volta contiene l’oggetto-totem del film, la trottola, il correlativo oggettivo di un mondo costruito a partire da continue spinte centrifughe, ma racchiuso in un elemento unico che non a caso si muove solo su stesso, senza progredire nello spazio.

La trottola di Inception, che lascia il dubbio sulla reale conclusione del viaggio, è il segno della contraddittorietà del cinema americano: il desiderio di far coincidere ogni cosa, di risolvere ogni ripetizione, e al tempo stesso la fatale necessità di rilanciare l’idea di dissimmetria e dunque la possibilità di costruire altri infiniti modi, infiniti tempi e infinite storie. Nella sua inscindibile piccolezza, concentra il film di cui fa parte, così come la scatolina blu di Mullholland Drive racchiudeva l’idea di cinema di Lynch. Ma quello che là era un mondo a doppia uscita, il risucchio in un buio di morte e rinascita che dava vita a un cinema potenzialmente infinito, in grado di costruire qualsiasi mondo a partire dai suoi stessi elementi, qui è un movimento che sancisce il perpetuarsi del cinema come costruzione di sogni, ma anche la fragilità e il fallimento di ogni sua costruzione: i soliti luoghi di ogni approdo sono sempre là, sempre simboli dei soliti traumi sentimentali, con le onde del mare che si ripiegano su loro stesse e mimano il movimento in avanti del cinema, rallentato da una spinta in direzione contraria. Quando si sogna, in fondo, si è convinti di non poter uscire dal sogno.

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