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Cineocchio - Film della settimana, 16 febbraio

La passione di Carlo Mazzacurati


Sinossi
Le tragicomiche vicende del regista Gianni Dubois, ex promessa del cinema caduto in disgrazia, che alla vigilia del ritorno sugli schermi con un film interpretato da una giovane e popolare attrice televisiva, si trova bloccato in un paesino della Toscana e qui costretto controvoglia a dirigere la rappresentazione popolare della Passione di Cristo.


È sintomatico dell’attuale stato del Paese se da tempo il cinema italiano è stato mangiato dalla televisione e se il dialogo tra i due è fortemente sbilanciato dalla parte della seconda. La televisione ha vinto la battaglia della popolarità e della seduzione collettiva contro il cinema e di conseguenza si è conquistata il diritto di parlare per prima, di creare personaggi e figure comiche che prosperano sul piccolo schermo e poi arrivano anche a esprimersi sul grande. Con Checco Zalone e Cetto La Qualunque, per restare agli ultimi clamorosi esempi, è andata così: la tv ha dato il via al tormentone e i film che ne sono seguiti si sono limitati a nobilitarlo o ad allungarne l’esistenza. Il cinema, o almeno il cinema commerciale e comico in cui la ripetizione è norma e bisogno spettatoriale, non prosegue il discorso televisivo, ma lo ripete solamente, al massimo lo prolunga.

Carlo Mazzacurati, che è un regista vero e non un esecutore, come Gennaro Nunziante o Giulio Manfredonia, lo sa bene e nel momento in cui decide di girare una commedia italiana datata 2010 si pone al limitare del problema, un passo prima della resa alle dinamiche televisive, un passo oltre la possibilità di pensare al comico in termini cinematografici. Il suo La passione fa ridere, fa ridere un sacco, ma lo fa come una fiction riuscita e ben scritta: con i tempi rapidi dello sketch da cabaret, con le macchiette dei personaggi che prevalgono sulla loro definizione psicologica, con la presenza di Corrado Guzzanti che si limita ad aggiornare la sua galleria di magnifici e orribili freak televisivi. La stessa comicità al vetriolo sul mondo del cinema italiano, da cui nascono le battute più divertenti del film, non è che la riproposizione della verve acida di Boris, della sua auto-indulgenza e della sua bonarietà travestita da cattiveria.

Non è mettere alla berlina colleghi e avversari che preme a Mazzacurati, pur con tutta l’ironia e il divertimento che impiega. E non è nemmeno l’ingenuità della provincia a interessarlo, avendo in passato attraversato, e con ben altra forza, quel mondo di articolate ambiguità. Resta sì un pittore di paesaggi umani e sociali, ma con la consapevolezza che la compromissione dello sguardo televisivo ha definitivamente mutato la capacità di discernimento della realtà. Il mondo che mette in scena, superficiale e bozzettistico, con una Toscana da spot e una lingua da vernacoliere, è l’unico che al momento il cinema comico possa permettersi, il solo gioco che il pubblico accetti di giocare per arrivare alla risata.


La passione è dunque la storia di un’impotenza creativa che si traduce in un’impotenza esistenziale. L’inazione di Gianni Dubois, regista senza più ispirazione e incapace di dirigere una rappresentazione popolare che sembra andare in scena da sola, come un film senza regia, come un qualsiasi prodotto comico di Checco Zalone o Ale e Franz, è il segno della sconfitta del cinema rispetto alla televisione. Non c’è nemmeno Mazzacurati dietro l’immagine stereotipata dell’ex promessa del decaduta; c’è l’idea stessa di una sconfitta storica, la superficialità di ogni discorso condotto con le regole imposte dallo spettacolo televisivo.

Tutto è piatto, bidimensionale, costruito: non, però, come il tableau di una passione medievale, ma come uno schermo senza profondità. Non è un caso, quindi, che la rabbia a un certo momento si sfoghi non come reazione alla sfortuna, ma come sdegno di fronte alla derisione senza vergogna dello spettatore comune, insensibile a tal punto da ridere di un uomo grasso che crolla al suolo e da non accorgersi di assistere a uno spettacolo vero, tridimensionale, alla rappresentazione reale di una moderna passione, l’unica oggi possibile: la passione, cioè, del diverso, dell’ultimo, del singolo la cui soggettività non si adegua all’emotività collettiva e merita quindi irrisione e rifiuto.

E non è un caso, infine, che una volta spezzato il velo di nulla con cui ha avvolto la sua commedia (inevitabilmente) televisiva, Mazzacurati scelga di chiudere il suo film con un altro film, che è cinema quanto meno indipendente, creato dalla mente finalmente libera di Dubois e dunque racconto senza veli, racconto di fuga e liberazione che sceglie di collocare un personaggio al limitare di un mondo da scoprire, oltre il quale si celano lo sconosciuto, l’inatteso, il nuovo forse.

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