About Elly di Asghar Farhadi
Sinossi
Un gruppo di amici di Teheran, quarantenni sposati e benestanti, organizza una gita fuori porta per celebrare il ritorno in Iran di Ahmad, rientrato dalla Germania dopo il divorzio dalla moglie tedesca. Alla vacanza invitano anche Elly, una giovane amica conosciuta da poco, nella speranza che tra lei e l’invitato speciale possa nascere una relazione: ma quando la donna scompare senza lasciare traccia, forse annegata in mare forse fuggita dalla sua famiglia, le certezze e i legami del gruppo si sgretolano.About Elly è il titolo internazionale di un film iraniano del 2009, presentato con successo al Festival di Berlino, che in originale si chiama Darbareye Elly. Tradotto verrebbe «A proposito di Elly», e francamente non si vede il motivo per cui la distribuzione italiana non l’abbia chiamato così (forse perché con un titolo del genere qualcuno avrebbe potuto scambiarlo per una commediola hollywoodiana). Ma non angustiamoci troppo, è già qualcosa che About Elly sia arrivato nelle sale italiane, e poi nei circuiti dei cineforum, a più di un anno e mezzo dalla sua prima proiezione pubblica.
La particolarità del film è quella di non appartenere all’iconografia standardizzata del cinema iraniano. Non c’è infatti nel film la fissità della sguardo tipica di quel cinema, non c’è l’attenzione per le classi disagiate, non c’è la presenza costante della stato nazione a soffocare la libertà individuale. O meglio, c’è ciascuna di queste cose, ma per una volta nascoste sotto la superficie di un’opera di ambientazione borghese, con personaggi appartenenti alle classe benestanti e coinvolti in un dramma sentimentale che a poco a poco diventa la cronaca di una sparizione.
Qualcuno vi ha visto nella struttura narrativa un evidente omaggio a un classico italiano, L’avventura di Michelangelo Antonioni, con al centro della vicenda un gruppo di giovani in vacanza, con la sparizione di una ragazza che sconvolge la vita di tutti e modifica radicalmente i rapporti interni al gruppo. La differenza è che, laddove Antonioni la buttava decisamente sull’esistenziale, Asghar Farhadi, regista nell’Iran di Ahmadinejad, non può fare a meno di essere più concreto, e di parlare del mondo e della società in cui i suoi personaggi, per quanto non troppo diversi dagli occidentali, sono costretti a vivere.
Ed è in questo modo, attraverso l’innesco di un meccanismo narrativo evidente (la sparizione di una persona), che il film mostra il ritratto impietoso delle costrizioni a cui ogni individuo è sottoposto in una società permeata dal controllo dello stato e della religione.
Il dramma non è viene mai del tutto svelato, l’identità dei personaggi coinvolti rimane ambigua, così come la soluzione del caso: ma bastano la percezione del dubbio, lo squarcio nel velo di normalità che le persone cercano di creare attorno a sé, per mettere in crisi un intero mondo e i suoi valori. Il vuoto su cui è costruita l’esistenza dei protagonisti di About Elly si rivela in tutta la sua profondità nel momento in cui la paura li mette a nudo e soprattutto fa intuire la possibilità della punizione e della repressione. Non succede nulla di illegale o scandaloso nel film, ma l’idea che stessa che sia potuto succedere già basta a creare scompiglio e sofferenza.
Per noi occidentale, lontani anni luce da quella sottile, pervasiva, e per questo ancora più violenta, soppressione della libertà, è impossibile non pensare alle rivolte e alle reazioni seguite alle elezioni presidenziali di due anni fa o, per venire a episodi più recenti, al processo a Sakineh o alla carcerazione del regista Jafar Panahi. È impossibile non pensare che i protagonisti del film, colti, urbani e agiati, non siano gli stessi manifestanti che si sono riversati nelle piazze di Teheran dopo la proclamazione di Ahmadinejad. Ma il film di Asghar Farhadi non li osserva da lontano, nell’insieme, come un soggetto sociale e politico, bensì da vicino, uno a uno, colti in un momento di crisi familiare e personale che la dice lunga su ognuno di loro, ovvero sui fragili equilibri (sulle invisibili ipocrisie quotidiane) che sostengono la morale dominante a trent’anni dalla rivoluzione islamica. Generando, lungo la vicenda, un groviglio di imbarazzi e dolori così inestricabile da assumere, per la distanza culturale, un sapore quasi metafisico. Anche se tutto nel film (che non nomina mai fede e precetti religiosi) ci parla di storia, di concretezza, di un qui e ora che mai forse il cinema iraniano ha mostrato più esplicitamente.
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