Somewhere di Sofia Coppola
Sinossi
Johnny Bravo è un divo di Hollywood: vive nel mitico hotel Chateau Marmont, passa le giornate tra alcol e donne, conferenze stampa e sedute al trucco, riceve inviti da tutto il mondo e ha pure una figlia undicenne che vede di rado. Solo quando si trova a passare più tempo con lei capisce quanto le sia affezionato e, soprattutto, quanto la sua invidiabile vita sia in realtà un’insignificante serie di eventi.
Somewhere, il film vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia, rappresenta una nuova incursione di Sofia Coppola nel vuoto fisico e morale del cinema, dopo Lost in Translation (2003). Raccontando la non-storia di un attore dissoluto che passa alcuni giorni con la figlia e capisce di aver sprecato la sua vita, la Coppola ritorna allo spaesamento e all’ironia del suo film più celebre; ritornano anche l’immobilità dello sguardo e lo stupore ferito di fronte al costume appariscente e fasullo dello show business.
Per questo motivo, il film non si presenta come originale o sorprendente, ma illumina lo schermo della sua grazie minimale. Sofia Coppola ha talento, su questo non c’è dubbio, e anche se lavora sempre sugli stessi elementi (la solitudine dell’individuo di fronte alla realtà e alla storia, lo scollamento tra percezione ed esperienza, il dialogo tra innocenza e stupore), il suo è grande cinema che sa divertire e a tratti commuovere.
Da Il giardino delle vergini suicide a Lost in translation, la Coppola ha sempre imposto prepotente il suo mondo a parte. L’attore Johnny Marco, italo-americano come la regista, vive accampato nel mitico hotel Chateau Marmont, costruito nel ‘27, odoroso di leggende, antico ed europeo abbastanza da essere di moda: i divi, da Boris Karloff a Greta Garbo, da James Dean a Marilyn Monroe, a Paul Newman, hanno vissuto in certi momenti delle loto vite nei mini-appartamenti che sanno di valle della Loira. Un posto sobrio, come spesso lo è Los Angeles, dove John Belushi pensò bene di impasticcarsi fino a morire nel 1982. È qui che Johnny Marco vive la sua non-vita, scollato dal mondo ma incapace di tirarsene fuori, dentro il sistema ma capace solo di subirlo. Si impasticca, beve e si addormenta davanti alla lap dance di due popcorn venus (in una delle scene più geniali del film, quella in cui si capisce il trucco della seduzione portatile e smontabile), piccoli svaghi a favore del divo catatonico, richiesto per foto sul set e per conferenze stampa surreali. Johnny Marco è una «nullità», non ha fatto scuole di recitazione, è una star per caso, non a caso lo si sente dire cose come: «non sono una persona». Ma è bellino e piace, mangia ragazze come torte, con gesti da automa, e si assopisce tra le gambe dell’ultima conquista.
Finché in scena arriva Cleo, undici anni, sua figlia. E il film diventa una riedizione di Lost in translation, se possibile ancora più lucida nella disamina del vuoto esistenziale del suo protagonista. Sofia Coppola pesca nell’archivio della memoria di Francis Ford, quando papà la trascinava per gli alberghi di mezzo mondo. Ma pensa anche ai film che si facevano quando Coppola-padre cominciava a fare grande cinema, negli anni ’70 di un amico e collega come Peter Bogdanovich, che con il magnifico e dimenticato Paper Moon già raccontava il difficile rapporto tra un padre e una figlia bambina come un buffo trattato comico-filosofico alla Peanuts, come se i protagonisti fossero tanti Snoopy, Charlie Brown o Linus intenti a guardar le stelle mentre intorno qualcuno si agita.
L’unico momento in cui la Coppola sembra calcare la mano, uscire dal gioco facile eppure sempre avvincenti dell’ironia grottesca e assurda, è quando la star hollywoodiana e la figlia volano in Italia per ritirare il Telegatto. La situazione è esagerata e pure un po’ avvilente (va bene che facciamo schifo, ma una roba così non si metteva scena a quel modo nemmeno ai tempi di Colpo grosso), ma rende in modo preciso la separazione drammatica tra realtà e sua mistificazione. Quello che si vede al cinema (e in tv) è un avanspettacolo dall’aria miserevole, tra le apparizioni oscene di Simonta Ventura, Maurizio Nichetti, Nino Frassica, Valeria Marini e Laura Chiatti che per i diretti interessati suoneranno pure ironiche, ma per la Coppola rappresentano il riproporsi di un incubo che deve averla segnata quando accompagnò il padre a una cerimonia di premiazione.
Poi il film riprende, la storia si incarta nuovamente e nient’altro rimane se non la consapevolezza che tutto scorre, che nulla resta tra le mani che hanno cercato di afferrare il presente (il padre abbandona nuovamente la figlia e sa di poterla perdere da un momento all’altro). La sola cosa sicura è la macchina da presa, l’unico sguardo, l’unica presenza vera del film, il solo strumento in grado di concepire l’annichilimento interiore del personaggio.
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