Sinossi
Dopo lo scioglimento dell'orchestra in cui suonava come violoncellista a Tokyo, Daigo Kobayashi torna insieme alla moglie a Yamagata in una provincia rurale del nord del Giappone. Alla ricerca di un nuovo lavoro, Daigo risponde a un annuncio per un impiego "di aiuto alla partenza" convinto che si tratti di un'agenzia di viaggi. In realtà si accorge che ha a che fare con un'agenzia di pompe funebri. Spinto da necessità economiche Daigo accetta comunque il posto. Immerso in questo mondo a lui sconosciuto, l'ex musicista scopre tutto sui rituali funebri, continuando a nascondere alla moglie la vera natura del suo lavoro.
Departures è stato uno delle sorprese più gradite della scorsa stagione cinematografica. Realizzato nel 2008, vincitore dell’Oscar come miglior film straniero nell’anno successivo (premio quest’anno andato a Il segreto dei suoi occhi, in programmazione a fine cartellone) in Italia è uscito come al solito con un ritardo abissale, grazie al lavoro della piccola casa di produzione Tucker, nata dalla collaborazione tra il circolo del cinema Cec di Udine e Cinemazero di Pordenone, che da anni organizzano in Friuli l’imprescindibile FarEastFestival, dove il film è passato.
Contrariamente alle aspettative, però, il film è stato un successo, soprattutto in quella fascia di pubblico di uomini e donne adulti, anziani ma neanche troppo, che sempre più spesso le agenzie di mercato tendono a dimenticare e che invece a volte rischiano di ribaltare le aspettative del mercato. Merito del tema del film, forse, della delicatezza con cui viene trattato, della finezza con cui viene allestita un’esibizione di antropologia culturale travestita da narrazione popolare: sta di fatto che Departures (vuol dire «decessi», dipartite, e non si capisce perché diavolo abbiano deciso di non tradurlo) è uno dei film d’autore di maggior successo degli ultimi tempi, un piccolo film che improvvisamente si fa grande e arriva a toccare il cuore di molti, inaspettati spettatori (in patria ha incassato più di 60 milioni e all’Oscar sconfisse l’israeliano Valzer con Bashir, che però, detto a mo’ di inciso, meritava decisamente di più…).
Come ha scritto Alberto Crespi sull’Unità, Departures «è un film che parla di morte in modo sereno», ma che soprattutto costruisce un racconto che ha nella morte il tema centrale, ma che trova la sua ampiezza di respiro in molti altri tempi: «il contrasto città/ provincia e modernità/tradizione, l’accettazione della morte come estremo momento della vita, l’essenzialità del Rito nella cultura giapponese».
Qua e là rallentato dalla voglia di alleggerire il racconto e da un’estetizzazione non richiesta del paesaggio rurale giapponese, Departures è un’acuta osservazione sulla morte e il rapporto che instauriamo con essa. La morte è fatta per i vivi, non per la Morte, sembra dire il film. Ma soprattutto la morte è vicina al corpo di chi rimane: impone la sua presenza concreta e costringe a guardarla negli occhi, a lavarla, pulirla, depilarla, rivestirla, attraverso il corpo ancora caldo di chi se ne è andato. Il lavoro del protagonista è quello di un traghettatore, colui cioè che aiuta i morti a presentarsi in buono stato al cospetto dell’aldilà, ma soprattutto è un sacerdote laico dell’accettazione del dolore. «Gli esseri vivi mangiano gli esseri morti per vivere. L’eccezione sono le piante», gli dice il suo maestro: e dunque il cadavere è una presenza necessaria e inevitabile delle nostre vite, una realtà che la cultura occidentale cerca forse di evitare, peggio ancora di mistificare, e che nel mondo orientale viene elevato attraverso il rito delicatissimo della vestizione e del trucco.
In questo senso, Departures è un film che celebra il trucco come necessaria forma di protezione contro la concretezza della vita o contro l’inevitabile presenza della morte: perché il rapporto che il protagonista instaura con il suo lavoro, con la sua delicatezza e la sua profondità, lo aiuta a ritrovare il senso smarrito della vita e al tempo stesso aiuta le persone che assiste e di fronte alle quali allestisce il suo spettacolo macabro e commovente ad accettare la morte attraverso l’accettazione delle gioie e dei dolori della vita. Dunque, un film che è elogio della cosmesi, del trucco, e per estensione del cinema stesso: un film d’altri tempi, narrativo, didascalico, simbolico in modo un po’ sfacciato o ingenuo, ma a suo modo sincero, fatto per il grande pubblico e dal grande pubblico giustamente premiato.
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