Sinossi
Il film è la storia di Grégoire Canvel, un uomo che ha tutto. Una donna che lo ama, tre figlie deliziose, un mestiere che lo appassiona. Fa il produttore cinematografico e al suo lavoro dedica tutto il tempo e le energie. La famiglia ne risente ma lo comprende. Ha carisma, Grégoire. Ha prodotto tanti film, preso molti rischi e accumulato debiti. La sua Moon Film è sull’orlo del fallimento. Lui resiste ad ogni costo ma lo scacco è evidente, il danno irreparabile. Spalle al muro, sceglie di uscire di scena con un gesto estremo e nessuna spiegazione. Agli altri, ancora una volta, il compito di capire.
Il padre dei miei figli porta al cinema la vicenda triste di Humbert Balsan, produttore francese di grandi registi del cinema d’essai come Youssef Chahine, Yousri Nasrallah, Claire Denis e di tutti quegli autori che nel mondo, dal Tagikistan alla Corea del sud, cercavano un interlocutore pronto a rischiare e a credere nei loro progetti. Un uomo appassionato, Balsan, che come il personaggio che nel film prende il nome di Grégoire Canvel amava il cinema come pochi altri, aperto alla vita e all’arte e da quella stessa arte fermato e calpestato.
Quello che però nella vita è stato il fallimento professionale di un uomo e del suo progetto, nelle mani della giovane regista Mia Hansen-Løve diventa un dolce, intensissimo melodramma famigliare. Francese di origini austriache, come si percepiva già nel semi-autobiografico Tout est pardonée, presentato in concorso all’Alba International Film Festival del 2008, la Hansen-Løve ha imparato il mestiere da Olivier Assayas, per il quale ha lavorato come attrice e dal quale ha tratto la lezione di un cinema attento ai corpi e ai volti dei personaggi, fisico nella sostanza delle immagini, ma intimo, privato, quasi spirituale nella predominanza dei sentimenti e delle emozioni
Il padre dei miei figli gioca sull’attesa e sulla costruzione di un mondo ideale: la prima parte è un lungo preludio a qualcosa che deve succedere e che succederà, come se l’amore familiare fosse la sola realtà che possa restare una volta che tutto scompare e finisce. E così, lontano da una narrazione piana, ma a favore di un racconto fatto di incontri e conversazioni, piccole e grandi felicità, il film accumula calore, affetto, spontaneità, bellezza e quando si libera in un dolore insostenibile è solo grazie a ciò che ha costruito che riesce a essere credibile e sincero.
Perché quando la narrazione sembra sopraffare i personaggi, quando l’evento biografico prende il sopravvento e fa finalmente svoltare la narrazione, quello che la regista sceglie è di lasciar libero il film, di non forzare la macchina del dolore o di privilegiare la questione economica. Sceglie invece di portare in primo piano i personaggi, di farne come nella prima parte il centro del film, con in più la presenza di un fantasma che emerge proprio per la sua assenza.
Il padre dei miei figli, allora, comincia a seguire traiettorie casuali, apre strade senza uscita, osserva e filma i corpi delle quattro protagoniste muoversi in un mondo dove l’assenza, paradossalmente, è la sola presenza certa. Protagonista parziale e discreta diventa soprattutto la giovane figlia di Grégoire, ragazza che mescola rabbia e tristezza nella solitudine dell’adolescenza. La regista entra delicatamente, e da vicino nei sentimenti delle donne, sa renderli veri nella loro danza di riso e di pianto, di piccole epifanie come una cena a lume di candela o quando le ragazzine entrano per l'ultima volta nell'ufficio paterno e fronteggiano l’assenza portandosi via dei ricordi: un biglietto da visita, gli scarti della pellicola di un vecchio film.
Il padre dei miei figli è un film sul cinema, ma sul cinema come veicolo di vita e bellezza, perché appunto parla di relazioni, amore, crescita, spaesamenti. È un film straordinario: Mia Hansen-Løve deve forse troppo al cinema dei suoi modelli, ma alla lunga emerge in tutta la sua femminilità e trasforma una storia malinconica e tristissima in un inno alla vita.
PS: Una curiosità: i titoli dei film, i nomi dei registi e le locandine appese nello studio di Grégoire Canvel sono stati mutati, ma non le vicende produttive di Humbert Balsan e gli spezzoni dei film da lui prodotti. Il film che si vede durante la retrospettiva parigina è L’angelo della spalla destra (2002) di Jamshed Usmonov, che nel film interpreta se stesso ma con lo pseudonimo di Kova Asimov; mentre il film che portò Balsan al fallimento, qui diretto da un regista svedese, nella realtà era L’uomo di Londra dell’ungherese Bela Tarr, rimasto bloccato per due anni e poi terminato nel 2007 e presentato in concorso al Festival di Cannes.
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