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Film della settimana - 18 gennaio

La donna che canta di Denis Villeneuve


Sinossi
Alla morte della madre Nawal, i gemelli Jeanne e Simon Marwan vengono convocati dal notaio Lebel per la lettura del testamento. Lebel, oltre a comunicare loro le ultime volontà di Nawal, consegna ai fratelli anche due lettere, una indirizzata a un padre che credevano morto e l’altra a un fratello di cui ignoravano l’esistenza. Dopo lo shock iniziale Jeanne e Simon partiranno alla volta del Medio Oriente per scoprire il passato della loro famiglia, di cui in realtà non sanno quasi nulla...


La donna che canta è un melodramma puro e semplice, una storia di agnizione da feuilleton ottocentesco trasportata nel ’900 e nella sua tragica realtà storica. Del mélo sentimentale ha tutte le caratteristiche: la scoperta iniziale, il flashback rivelatore, il salto geografico in un altro continente, la risoluzione del trauma nel tempo presente, la vicenda individuale intrecciata a quella collettiva, l’insegnamento morale che porta a uno scioglimento dei conflitti. Rispetto ai modelli del cinema classico a cui evidentemente si ispira, c’è la consapevolezza moderna della precarietà di ogni forma di narrazione, la distanza critica di cui nessun regista o sceneggiatore può dimenticarsi e, soprattutto, di cui ogni spettatore deve premunirsi nel momento in cui accetta di prestare attenzione a una storia. Colpa o merito del postmoderno, certo, dell’inibizione del cinema di fronte all’eccessiva evidenza della finzione o della ritrosia del pubblico di fronte all’emozione senza freni: ma nulla vieta che per un attimo la distanza critica venga messa da parte e si recuperi lo spirito di una primigenia affabulazione.

Ciò di cui Villeneuve va in cerca è proprio questa resa volontaria e gratuita; una sorta di salto temporale all’indietro, che non riguarda solamente i protagonisti della vicenda ma tutti gli spettatori del film. Se per gli uni si tratta di scoprire l’origine della propria identità, per gli altri il compito è ritrovare un’innocenza dello sguardo e dell’emozione che oggigiorno il cinema non richiede più. O meglio, che vorrebbe richiedere, ma sa di non potersi permettere. La donna che canta, invece, è un film fiducioso nel potere immaginifico del racconto, che prova a recuperare un’emozione di sapore sia vintage, come di storia sentita raccontare e non vissuta di persona, sia salvifico, quasi che il cinema cercasse una redenzione attraverso la sospensione dell’incredulità. Lo si capisce da come l’incipit non tergiversa ed entra subito nel vivo, gettando personaggi e spettatore nella discesa verso la conoscenza delle rispettive radici.

Prima scena, tutti in campo: due gemelli, due testamenti, una sola madre dalla vita doppia, perché in fondo ogni vita ha il suo lato oscuro, sconosciuto anche da chi ne è padrone. I due ragazzi protagonisti sono scioccati e lo spettatore costretto fin da subito a negoziare la propria adesione: si capisce che la storia potrebbe portare lontano, che potrebbe celare un amore misterioso o quando di più impensabile e profondo. Se non si accetta il gioco, si farebbe meglio mollare fin da subito.

Ciò che La donna che canta chiama in causa è la fiducia nel cinema, e più ancora nell’arte del racconto. Non è un film perfetto, non dosa gli elementi in maniera equilibrata e non giustifica in modo realistico gli snodi cruciali della trama: proprio per questo, però, per una forza che incanala i mille rivoli della Storia in un unico luogo, per una ragione che può solo risiedere nella gratuità di ogni fabula, mostra la pervicacia del suo meccanismo, la seduzione che mette in campo, la sincerità di un’onesta autorizzazione a manipolare la realtà e dunque l’emozione dello spettatore.

 Il racconto è una calamita, attira i protagonisti verso un centro dove scoprire la verità sull’origine della vita. Doppi squilibrati e perciò archetipici, opposti nel sesso, nell’aspetto e nel carattere, lei più comprensiva e curioso, lui più chiuso spaventato, i due gemelli del film sono versioni moderni della favola di Pollicino: seguendo le briciole della storia personale della loro madre, entrano di volta in volta in una dimensione sempre più ampia, storicizzata e universale, e al tempo stesso si avvicinano al nodo cruciale delle loro esistenze individuali. Spettatori inermi del destino altrui, fratello e sorella imparano lentamente a prendere parte al gioco, arrivano a scambiarsi quando non possono più tirarsi indietro, quando hanno ormai capito il senso ultimo della lezione morale che la madre, vittima e carnefice inconsapevole, ha voluto impartire loro.

 L’identificazione tra i personaggi e il pubblico è evidente (fin troppo, a dirla tutta: ma è proprio qui, in questo eccesso, il rapporto di fiducia che il film pretende), essendo il viaggio dei due fratelli, come sempre nella narrazione popolare, un viaggio simbolico. Il doppio piano della storia individuale e collettiva si fa esplicito nel momento in cui la verità getta le vite dei singoli individui nella tragedia della Storia del ‘900, nel corto circuito inumano che ha portato in quasi ogni decennio alle violenze etniche e agli olocausti culturali. Si parla della guerra del Libano, degli scontri tra musulmani e cristiani maroniti: ma il riferimento potrebbe essere ad altre tragedie storiche e altre guerre fratricide. A contare sono l’abominio dell’incesto e della violenza che scorre obliqua tra i legami di sangue.

La scoperta finale, oltre a generare un probabile ululato di stupore nel pubblico, segna il congiungimento delle forze che spingono il film verso il proprio compimento: l’approdo a un punto di non ritorno in cui il male della Storia macchia la dimensione individuale con il sangue dell’irreparabilità. La donna che canta, come scriverebbe Roth, trasforma il quotidiano in epopea, accetta il lato oscuro dell’umanità ma lo forza a tal punto da trasfigurarlo in una forza generatrice di vita: la Storia che invade la vita dei personaggi del film è quella reale, l’orrore e l’odio anche, ma la strada che si fa imboccare al racconto porta volutamente da un abominio a un paradosso, da un male assoluto a un amore di uguale intensità.

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