Sinossi
Ali è appena uscito di prigione, ha trovato un lavoro notturno ma cerca di passare molto tempo con la famiglia. La sua vita viene nuovamente sconvolta quando una tragedia accidentale lo ributta in una situazione di disperata solitudine. Furioso di fronte al dolore e all’impotenza della legge, Ali decide di farsi giustizia brandendo il suo fucile. Inizia così una caccia all’uomo che dal grigiore di Teheran porta a una natura selvaggia e sconfinata.The Hunter - Il cacciatore, presentato in concorso a Berlino nel 2010 e arrivato sugli schermi italiani dopo un passaggio al Torino Film Festival, è uno dei film più folgoranti e inattesi degli ultimi anni, lontano migliaia di miglia dall’idea comune e condivisa di cinema iraniano.
Siamo a Teheran, ma non lo direste: il regista Rafi Pitts (anche interprete principale della sua pellicola) brucia l’immaginario, perché l’Iran non è un paese per vecchi, né di povertà o di neorealismo a tutti i costi. La capitale è scrutata con campi lunghi sul traffico, campi medi su crocicchi e sonoro urbano, a servire le geometrie di un alienazione contemporanea che raramente è arrivata a tali livelli di crudezza e disperazione. Non è un film facile, The Hunter: ma è cinema d’autore maiuscolo e adulto che con una regia solida e di ferro chiede coinvolgimento e riflessione.
È una storia in tre parti e in due luoghi, prima il cemento di Teheran poi una foresta di montagna e i suoi boschi infiniti, tra incidenti mortali, vendetta contro il destino, vendetta contro l’uomo, violenza cieca, fuga, inseguimento, ribaltamento dei ruoli di forza, individuo contro società, cultura contro natura e solitudine, una geografia intera di solitudini che non possono non rimandare a una rappresentazione critica dell’attuale società iraniana.
Un’odissea fisica e personale, quella messa in scena da The Hunter, che nella prima parte ricorda i noir di Don Siegel, la disperazione esistenziale del cinema urbano anni ’70, e nella seconda parte, quando proprio non te la aspetti, segno di un cinema senza frontiere narrative e stilistiche, si apre alle derive fisiche dei documentari herzoghiani, sfiorando l’abisso delle sue riflessioni apocalittiche vicino all’assurdo, o ancora il cinema rabbioso di Monte Hellman, diviso tra la tentazione del western, antisociale ed elegiaca, e la riflessione sullo scontro tra giustizia privata e ingiustizia pubblica.
Nel personaggio di Alì, il protagonista, Pitts ha trasferito il disagio, il disorientamento, il baratro della follia su cui pende un’intera generazione di iraniano. E non è un caso in questo senso che abbia scelto di essere anche attore del suo film, regalando all’eroe vittima, assassino e fuggitivo la sua espressione inquieta, segnata, scontrosa. Grande appassionato del cinema di John Cassavetes – e lo si vede nell’attenzione che ha per i corpi, per il loro movimento nello spazio, per come trova una dimensione umanista in un contesto spersonalizzato o vasto come solo la natura sa essere – Pitts ha il merito di saper raccontare un Iran inedito, moderno, metropolitano.
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