Sinossi
Il principe Alberto d’Inghilterra, altezzoso quarantenne affetto da balbuzie e per questo incapace di parlare in pubblico, comincia a prendere lezioni di logopedia da un medico australiano. Ne nascerà un’intensa amicizia che porterà il futuro re Giorgio VI a guidare il suo popolo nella guerra contro Hitler. Il film inglese Il discorso del re di Tom Hooper è stato il prevedibile, e ampiamente previsto, trionfatore degli Oscar 2011. Si tratta di un film costruiti apposta per quell’occasione: un film borghese, come si sarebbe detto un tempo, per tutti i tipi di pubblico, come invece si tende a dire oggi, confezionato alla perfezione e recitato ancora meglio (e in questo caso spiace ribadire ancora una volta l’impoverimento dato dal doppiaggio italiano, che impedisce di cogliere lo scontro non solo linguistico ma soprattutto culturale tra l’inglesissimo Colin Firth e l’australiano Geoffrey Rush).
Al tempo stesso, Il discorso del re è un esempio di un modo di fare cinema e raccontare storie che a Hollywood non esiste quasi più: un modo di fare cinema per gli adulti, e non per i ragazzini o i trentenni mai cresciuti, che un tempo, anche solo fino a una quindicina di anni fa, sfornava drammoni come Voglia di tenerezza, La mia Africa, Rain Man - L’uomo della pioggia o Il paziente inglese e che oggi o non si considera più o viene relegato nelle seconde file della produzione pensate direttamente per l’home video o per gli attori bolliti a fine carriera.
Invece quello di Hooper (anonimo regista miracolato dalla chiamata della produzione) è un’opera di primissima classe che sviluppa un argomento decisamente in linea coi tempi: quel processo di “umanizzazione” dei potenti (inglesi, in particolare) che in questo caso porta il pubblico di oggi nella vita di re Giorgio VI d’Inghilterra e che in anni recenti ha aperto le porte della segretezza alla vita di Elisabetta II (The Queen) e della coppia Clinton-Blair (I due presidenti) e tra qualche mese anche di quella di Margareth Tatcher (l’imminente The Iron Lady, interpretato da Meryl Streep).
Un meccanismo, questo, che in realtà è il semplice contraltare all’elevazione a eroi dei mediocri partecipanti dei reality show, ma che ha il merito – o il demerito – di sfamare la voglia di celebrità e difesa del privato di cui la nostra società non sembra fare a meno.
Al di là dei meriti sociologici, però, Il discorso del re ha comunque in sé qualcosa di ambiguo, la celebrazione di una sorta di diritto alla regalità di ogni regnante, come se la nomina alla guida di una nazione fosse un valore e non un privilegio toccato in sorte a pochi fortunati. Al tempo stesso, però, in alcuni momenti la lucidità della sceneggiatura rivela momenti di assoluta modernità. Succede ad esempio quando Giorgio V, padre del principe Albert, spiega al figlio il mestiere del re nell’era della comunicazione di massa: la radio, dice (e siamo alla fine degli anni ’30), ha portato la democrazia nelle case della gente e costretto i regali a fare qualcosa in più di starsene con la schiena diritta a cavallo: li ha costretti, cioè, a invadere il quotidiano di ogni individuo, a lisciar il pelo al popolo per conquistarsi la fiducia, diventando così la “più abietta delle figure sociali”, dice ancora il re, l'attore.
Un discorso di straordinaria consapevolezza metacinematografica che non può non riguardare la recitazione come modalità di vivere la società contemporanea (e dunque fare riferimento alla politica come spettacolo dei nostri anni) e chiaramente rimanda alle straordinarie performance degli interpreti principali, compresa la Helena Bonham-Carter che incarna la regina madre. Il film incarna infiniti spunti e idee nei corpi e nelle voci di Firth, il principe balbuziente, costretto dalla moglie a entrare in cura (ed è proprio nella sua invisibile presenza che la Bonham-Carter rivela la sua grandezza), e di Rush, logopedista australiano e non a caso attore mancato; un semplice guitto, agli occhi del principe, catapultato dal caso in una posizione di potere. Nella costruzione di questo rapporto il film di Tom Hooper è coraggioso e a volte geniale.
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