In un mondo migliore di Susanne Bier
Sinossi
Anton è un medico senza frontiere che lavora in Africa e che ogni giorno è costretto a fare i conti con la violenza e l’ingiustizia. A casa, in Danimarca, ha lasciato una moglie da cui si sta separando, un figlio piccolo e uno, Elias, che sta vivendo gli anni più fragili dell’adolescenza. A scuola, Elias diventa amico del coetaneo Christian, da poco orfano della madre e deciso a sfogare in modo rabbioso la sua disperazione: desiderosi di avere risposte al male che vedono dilagare nella società, progettano un’azione dagli esiti tragici.
L’ultimo film della regista danese Susanne Bier non è passato inosservato all’ultimo Festival di Roma. La domanda che muove il film: come si sta al mondo? Quale legge bisogna seguire? Quella della vendetta (il titolo originale, Heavnen, in danese significa vendetta) o quella della remissione? A queste domande sono chiamati i ragazzini? La Bier non si esime dal rispondere, seppure talvolta rasentando lo schematismo.
In una sequenza, invero piuttosto incisiva, il padre di Elias, tornato da un paese dell’Africa in guerra (sembra il Sudan), davanti al figlio e all’amico, viene per strada insultato e preso a schiaffi da un buzzurro. Non reagisce alla violenza, seguendo la sua fede anti-violenta e cercando di spiegarlo ai due ragazzini. Ma l’insegnamento non serve... il figlio non capisce, e l’amico pure. Se a scuola sono riusciti a farsi rispettare solo con la forza, perché non dovrebbero farlo per strada e nella vita? “In un mondo migliore”, per citare il titolo, si potrebbe pensare diversamente. In questo no.
Sono altre, poi, le domande chiave attorno a cui ruota il film, articolato e dubbioso come sovente è il cinema dei paesi nordici. Ad esempio, che cos’è, oggi, un buon padre: una questione tutt’altro che secondaria, che è il cardine di ogni possibile discorso sul futuro delle nostre società. O ancora, quali che siano le nostre convinzioni religiose o morali; che cosa deve fare (o non fare) dunque un padre, un adulto, un genitore, per essere all’altezza del ruolo più delicato di questa nostra società occidentale?
Ecco, secondo Susanne Bier e il suo sceneggiatore, un buon padre è quello che porge – letteralmente - l’altra guancia. Uno che non risponde alle provocazioni, ma tiene il punto. Che non si abbassa a restituire il colpo, ma mostra al figlio come la debolezza (momentanea) possa tradursi in forza. A rischio di perdere (momentaneamente?) la faccia e il rapporto con i figli.
In generale, la Bier non manca come al solito di riflettere sulla società del suo paese, la Danimarca, quale esempio di un occidente che sembra avere perduto la sua umanità. Da questa prospettiva, è significativo che la dialettica aspra tra perdono e vendetta non venga però letta in un’ottica cattolica. Il punto di vista della regista vuole essere morale interrogandosi su quella che a volte appare quasi una ineluttabilità di questa violenza. È il doppio registro a interessare la regista: come ad esempio può un medico impedire certe cose a casa propria e poi permettere un linciaggio in Africa?
Nel sottile intreccio di queste emozioni, trattenute e spesso confuse a qualcos’altro, Bier costruisce la sua indagine/riflessione sulla consapevolezza dell’umano e la perdita dei valori di riferimento collettivi. La brutalità di un quotidiano di sangue e di miseria è anche in una dimensione di pace e di benessere, camuffata dall’ipocrisia della «regola» sociale, che però non ne riesce più a controllarne gli sbalzi.
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