Invictus - L'invincibile di Clint Eastwood
Eletto presidente del Sud Africa, Nelson Mandela avvia un processo di riconciliazione nazionale che prevede, tra le altre cose, l’affermazione del rugby, sport principalmente per bianchi, presso la popolazione di colore. Tenace e lungimirante, Mandela dà il proprio appoggio alla nazionale in vista dei Mondiali di rugby che si terranno proprio in Sud Africa: l’anno è il 1995 e la squadra verde-oro configgerà in finale la Nuova Zelanda contribuendo non poco alla fine dell’apartheid.
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Mentre questo cinecircolo proietta Invictus - L’invincibile, film del 2009 uscito in tutto il mondo a inizio 2010, negli Stati Uniti è già nelle sale il nuovo lavoro di Clint Eastwood, Hereafter, presentato un mese al Festival di Toronto e atteso a gennaio nelle sale italiane. Lo scorso maggio, poi, il regista di entrambi i film ha compiuto ottant’anni e qualche settimana fa ha rilasciato intervista in cui dichiarava di avere intenzioni di fare cinema fino alla morte. Speriamo dunque arrivi il più tardi possibile, se il prezzo da pagare è dover vedere a ogni stagione uno o addirittura due film di Clint Eastwood, un po’ come succede nei festival cinematografici con le opere del centenario (e a questo punto immortale) Manoel De Oliveria.
Eastwood ci ha abituati da tempo a una grande prolificità e a una qualità altissima del suo cinema. E se pure gli ultimi lavori non sono all’altezza dei suoi capolavori, tra tutti Gli spietati (1991), Un mondo perfetto (1993), I ponti di Madison County (1995), Mystic River (2003) e Million Dollar Baby (2004), con Invictus - L’invicibile ha confermato di essere l’autore di cinema morale, classico e preciso che è sempre stato.
Quello che è nato come un progetto soprattutto dell’amico Morgan Freeman, che aveva come sogno di una carriera l’interpretazione di Nelson Mandela (compito che porta a compimento in modo egregio), è diventato nelle mani di un grande autore un’opera sulla moralità delle azioni umane e sulla possibilità di cambiare la Storia attraverso l’azione quotidiana. Non, dunque, il panegirico di un personaggio popolare e unico, ma il racconto semplice di un’avventura umana e politica, quella di Mandela, che può insegnare a ciascuno di noi come intervenire in prima persona sul proprio destino.
Intendiamoci: Invictus - L’invicibile è forse tra i film meno personali di Eastwood, un lavoro su commissione troppo furbo per essere autentico (guarda caso è arrivato nell’anno dei mondiali sudafricani) e troppo mitizzante per essere del tutto credibile. Ma le critiche che gli si possono muovere sono di carattere formale, non, paradossalmente, di ispirazione o necessità. E per una volta forse è meglio lasciar da parte la sacrosanta richiesta di rigore estetico e concentrarsi sulle ragioni che hanno portato Estwood e il suo sceneggiatore Anthony Peckham ad adattare il libro di John Carlin e raccontare la storia di come Mandela ha saputo unire un paese nel nome del rugby e della convivenza civile, dopo decenni di apartheid.
In questo senso, come ha scritto Roberto Escobar, «i problemi di fronte al film sono due. Il primo si mostra già nel sottotitolo italiano. Non è invincibile, Rolihlahla Mandela, detto Nelson. Piuttosto è un non vinto: la sua misura morale e politica non è quella (pericolosa) dell’eroe, ma quella dell’uomo comune che le difficoltà e le sofferenze trasformano in un capo, come si legge nella sua autobiografia (Lungo cammino verso la libertà). Il secondo pericolo riguarda il nostro modo di “sentire” il film». E cioè il modo in cui da spettatori – e da spettatori abituati al cinema hollywoodiano, al modo sempre uguale con cui una struttura narrativa rende il quotidiano epopea – reagiamo alle vicende narrate dal film. Invictus - L’invincibile chiede emozione, partecipazione, stupore di fronte alla straordinaria figura di Mandela: ma è lo stesso protagonista del film, il grande capo di una nazione, a non essere di per sé una figura mitologica o straordinaria. Mandela, al contrario, ama l’understatement, quello che fa è emozionante in sé, non perché sia lui a cercarla, l’emozione. Dunque, lo sguardo del film sul suo protagonista è ambiguo, a rischio di incomprensione, con da un lato la voglia di esaltarlo e dall’altro il risultato, riuscito, di renderlo umano, di dipingerlo come un uomo comune che ha saputo compiere delle scelte straordinarie. «Se non fossi più capace di rischiare», dice a un certo punto alla segretaria, «non sarei più un capo».
Ecco allora che forse il film diventa importante per ragioni distante dalle proprie iniziali intenzioni: non cioè come un’opera elegiaca, nata per celebrare un uomo e il suo popolo (per di più attraverso un evento sportivo su cui da tempo gravano sospetti di imbroglio, con l’accusa verso i sudafricani che intossicarono il cibo dei neozelandesi la sera prima della finale dei mondiali), ma come opera che “ancora” le emozioni alla consapevolezza morale di Mandela, alla sua quotidiana eccezionalità. «E in questo», dice ancora Escobar, «è evidente anche la consapevolezza morale del regista (…): nella coscienza del singolo sta il valore d’ogni scelta, e la coscienza di molti singoli può fare del mondo un posto migliore».
Alla fine, dunque, nonostante un’incertezza stilistica sorprendente per un autore di questa statura, sembra che Eastwood abbia realizzato con Invictus - L’invincibile una delle sue opere più mature: non tra le sue migliori, ma tra le più semplici e dirette, la più aperta al rischio generoso dell’emozione.
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